Descrizione
Lettera originale, autografa di Gabriele d’Annunzio, scritta a mano su due fogli di carta filigranata PER NON DORMIRE . La lettera è stata scritta di pugno dal Vate , non è una stampa o copia anastatica. La lettera è datata 3 Novembre 1932, e d’Annunzio si rivolge ad “Emanuele” scusandosi per non averlo chiamato essendo ancora influenzato, ma gli rammenta di avergli inviato 500 lire per la sua villeggiatura, ed altre 500 lire da spendere in alimenti e dolci (famose paste), e che presto lui potrebbe raggiungerlo a Pompei, “…come dissi l’altrieri al Capo.” – Il destinatario di questa missiva, è Emanuele Barile, agente editoriale del poeta.
Questa lettera autografa di Gabriele d’Annunzio è in ottime condizioni, i due fogli sono entrambi di carta filigranata, e presentano normali segni di usura. Si garantisce l’originalità assoluta di questa lettera autografa di Gabriele d’Annunzio.
Notizie
Gabriele D’Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1º marzo 1938), è stato uno scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale, dal 1924 insignito del titolo di “principe di Montenevoso”. Soprannominato “il Vate”, cioè “poeta sacro, profeta”, cantore dell’Italia umbertina, o anche “l’Immaginifico”, occupò una posizione preminente nella letteratura italiana dal 1889 al 1910 circa e nella vita politica dal 1914 al 1924. È stato definito «eccezionale e ultimo interprete della più duratura tradizione poetica italiana […]» e come politico lasciò un segno nella sua epoca e un’influenza sugli eventi che gli sarebbero succeduti. L’arte di D’Annunzio fu così determinante per la cultura di massa che influenzò usi e costumi nell’Italia -e non solo- del suo tempo: un periodo che più tardi sarebbe stato definito appunto “dannunzianesimo”.
(sotto : foto di d’Annunzio ed esempio di firma autografata – hand signed)
La famiglia e gli anni di formazione
Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863 da una famiglia borghese benestante. Terzo di cinque figli, visse un’infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità.
Dalla madre, Luisa de Benedictis (1839-1917), erediterà la fine sensibilità; dal padre, Francesco Paolo Rapagnetta (1831-1893) (il quale aveva acquisito nel 1851 il cognome D’Annunzio da un ricco parente che lo adottò, lo zio Antonio D’Annunzio), il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti, che portarono la famiglia da una condizione agiata a una difficile situazione economica.
Reminiscenze della condotta paterna, la cui figura è ricordata nelle Faville del maglio e accennata nel Poema paradisiaco, sono presenti nel romanzo Trionfo della morte.
Ebbe tre sorelle, cui fu molto legato per tutta la vita, e un fratello minore:
- Anna (Pescara, 27 luglio 1859 – Pescara, 9 agosto 1914);
- Elvira (Pescara, 3 novembre 1861 – Pescara, 1942);
- Ernestina (Pescara, 10 luglio 1865 – Pescara, 1938);
- Antonio (Pescara, 1867 – New York, 1945), direttore d’orchestra, si trasferì negli Stati Uniti d’America, dove perse tutto nella crisi economica del 1929; D’Annunzio lo aiutò finanziariamente con cospicui prestiti, ma le continue richieste di denaro spinsero Gabriele a rompere i rapporti e a rifiutare di incontrarlo al Vittoriale.
Il giovane D’Annunzio non tardò a manifestare un carattere ambizioso e privo di complessi e inibizioni, portato al confronto competitivo con la realtà. Ne è testimonianza la lettera che, ancora sedicenne, scrisse nel 1879 a Giosuè Carducci, il poeta più stimato nell’Italia umbertina, mentre frequenta il liceo al prestigioso istituto Convitto Cicognini di Prato. Nel 1879 il padre finanziò la pubblicazione della prima opera del giovane studente, Primo vere, una raccolta di poesie che ebbe presto successo. Accompagnato da un’entusiastica recensione critica sulla rivista romana Il Fanfulla della domenica, il libro venne pubblicizzato dallo stesso D’Annunzio con un espediente: fece diffondere la falsa notizia della propria morte per una caduta da cavallo. La notizia ebbe l’effetto di richiamare l’attenzione del pubblico romano sul romantico studente abruzzese, facendone un personaggio molto discusso. Lo stesso D’Annunzio poi smentì la falsa notizia. Dopo aver concluso gli studi liceali accompagnato da una notorietà in continua ascesa, giunse a Roma e si iscrisse alla Facoltà di Lettere, dove non terminò mai gli studi.
Il periodo romano (1881-1891)
La cultura provinciale e vitalistica di cui il gruppo si faceva portatore appariva al pubblico romano, chiuso in un ambiente ristretto e soffocante — ancora molto lontano dall’effervescenza intellettuale che animava le altre capitali europee — una novità “barbarica”, eccitante e trasgressiva; D’Annunzio seppe condensare perfettamente, con uno stile giornalistico esuberante, raffinato e virtuosistico, gli stimoli che questa opposizione “centro-periferia”, “natura-cultura” offrivano alle attese di lettori desiderosi di novità.
In quei primi anni giovanili utilizzava lo pseudonimo di “Duca Minimo” per gli articoli che scriveva per La Tribuna, giornale fondato dagli esponenti della Sinistra storica, Alfredo Baccarini e Giuseppe Zanardelli.
Il grande successo letterario arrivò con la pubblicazione del suo primo romanzo, Il piacere a Milano presso l’editore Treves, nel 1889. Tale romanzo, incentrato sulla figura dell’esteta decadente, inaugura una nuova prosa introspettiva e psicologica che rompe con i canoni estetici del naturalismo e del positivismo allora imperanti. Accanto a lettori ed estimatori più attenti e colti, venne presto a crearsi attorno alla figura di D’Annunzio un vasto pubblico condizionato non tanto dai contenuti, quanto dalle forme e dai risvolti divistici delle sue opere e della sua persona, un vero e proprio star system ante litteram, che lo stesso scrittore contribuì a costruire deliberatamente. Egli inventò uno stile immaginoso e appariscente di vita da “grande divo”, con cui nutrì il bisogno di sogni, di misteri, di “vivere un’altra vita”, di oggetti e comportamenti-culto che stava connotando in Italia la nuova cultura di massa.
Il periodo napoletano (1891-1893)
Tra il 1891 e il 1893 D’Annunzio visse a Napoli, dove compose Giovanni Episcopo e L’innocente, seguiti da Il trionfo della morte (scritto in Abruzzo, tra Francavilla al Mare e San Vito Chietino) e dalle liriche del Poema paradisiaco. Sempre di questo periodo è il suo primo approccio agli scritti di Friedrich Nietzsche. Le suggestioni nietzschiane, liberamente filtrate dalla sensibilità del Vate si ritroveranno anche ne Le vergini delle rocce (1895), poema in prosa dove l’arte «…si presenta come strumento di una diversa aristocrazia, elemento costitutivo del vivere inimitabile, suprema affermazione dell’individuo e criterio fondamentale di ogni atto».
Nel 1892, a seguito di una gara con Ferdinando Russo sulla capacità del poeta di comporre liriche in dialetto napoletano, D’Annunzio compone il testo de ‘A vucchella, romanza che verrà pubblicata nel 1907 musicata da Francesco Paolo Tosti. La canzone, eseguita da celebri tenori come Enrico Caruso e, in seguito, Luciano Pavarotti verrà incisa anche da grandi interpreti della canzone napoletana come Roberto Murolo che ne faranno un classico.
Il periodo fiorentino (1894-1904)
Sempre nel 1892 cominciò una relazione epistolare con la celebre attrice Eleonora Duse, con la quale ebbe inizio la stagione centrale della sua vita. Si conobbero personalmente nel 1894 e subito scattò l’amore. Per vivere accanto alla sua nuova compagna, D’Annunzio si trasferì a Firenze, nella zona di Settignano, dove affittò la villa La Capponcina – dal nome della famiglia Capponi che ne era stata la proprietaria – (vicinissima alla villa La Porziuncola dell’attrice), trasformandola in un monumento del gusto estetico decadente, definita da lui “la vita del signore rinascimentale”.
Frequentò anche il Chianti e conobbe una nobile di San Casciano in Val di Pesa, passò un breve periodo presso il Fedino, una nota villa del luogo. Sono in questi anni che si situa gran parte della drammaturgia dannunziana, piuttosto innovativa rispetto ai canoni del dramma borghese o del teatro, dominanti in Italia, e che non di rado ha come punto di riferimento la figura attoriale della Duse, nonché le sue migliori opere poetiche, la gran parte delle Laudi, e, tra queste, il vertice e capolavoro della poesia dannunziana, l’Alcyone. La relazione dell’artista con Eleonora Duse è stata celebrata a Firenze in un modo molto originale. Alla nascita del quartiere fiorentino di Coverciano (sorto proprio ai piedi della villa dannunziana di Settignano), due importanti arterie stradali della zona vennero inaugurate in memoria dei famosi amanti, prevedendo inoltre un incrocio tra queste vie.
Tra il 1893 e il 1897 D’Annunzio condusse un’esistenza movimentata, che lo portò dapprima nella sua terra d’origine e poi in Grecia, che visitò nel corso di un lungo viaggio.
Nel 1897 volle provare l’esperienza politica, vivendo anch’essa, come tutto il resto, in un modo bizzarro e clamoroso: eletto deputato della destra, passò quasi subito nelle file della sinistra, giustificandosi con la celebre affermazione «vado verso la vita», per protesta contro Luigi Pelloux e le “leggi liberticide”; espresse anche vivaci proteste per la sanguinosa repressione dei moti di Milano da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris. Dal 1900 al 1906 fu molto vicino al Partito Socialista Italiano.
Il trasferimento in Francia (1904-1915)
La relazione con Eleonora Duse si incrinò nel 1904, dopo la pubblicazione del romanzo Il fuoco, in cui il poeta aveva descritto impietosamente la loro relazione, e il tradimento con Alessandra di Rudiní. In quell’epoca la vita dispendiosa condotta dal Vate lo portò a sperperare le cospicue somme percepite per le proprie pubblicazioni, che divennero insufficienti a coprire le spese prodottesi. Nel 1910, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, D’Annunzio si trasferì in Francia: già da tempo aveva accumulato una serie di debiti e, per evitare i creditori, aveva preferito allontanarsi dal proprio Paese. L’arredamento della villa fu messo all’asta e D’Annunzio per cinque anni non rientrò in Italia. Risale a questo periodo la relazione con l’americana Romaine Beatrice Brooks.
A Parigi era un personaggio noto, era stato tradotto da Georges Hérelle e il dibattito tra decadentisti e naturalisti aveva a suo tempo suscitato un notevole interesse già con Huysmans. Ciò gli permise di mantenere inalterato il suo dissipato stile di vita fatto di debiti e frequentazioni mondane, tra cui quelle con Filippo Tommaso Marinetti e Claude Debussy. Pur lontano dall’Italia, collaborò al dibattito politico prebellico, pubblicando versi in celebrazione della guerra italo-turca, inclusi poi in Merope, o editoriali per diversi giornali nazionali (in particolare per il Corriere della Sera), che a loro volta gli concedevano altri prestiti.
Nel 1914 Gabriele D’Annunzio rifiutò di diventare Accademico della Crusca, dichiarandosi nemico degli onori letterari e delle Università. Ai bolognesi che gli offrivano una cattedra scrisse infatti: “amo più le aperte spiagge che le chiuse scuole dalle quali vi auguro di liberarvi”.
Dopo il periodo parigino si ritirò ad Arcachon, sulla costa atlantica, dove si dedicò all’attività letteraria in collaborazione con musicisti di successo (Mascagni, Debussy), e compose libretti d’opera (Le martyre de Saint Sébastien) e soggetti per film (Cabiria).
Partecipazione alla prima guerra mondiale (1915-1918)
Nel 1915 ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di Pascoli; condusse immediatamente un’intensa propaganda interventista, inneggiando al mito di Roma e del Risorgimento e richiamandosi alla figura di Giuseppe Garibaldi.
Il discorso celebrativo che D’Annunzio pronunciò a Quarto il 5 maggio 1915 durante l’inaugurazione del monumento ai Mille, in seno alle imponenti manifestazioni che si svolsero a Genova in occasione delle celebrazioni del Primo Maggio, segnò l’inizio di un fitto programma di manifestazioni interventiste, che culminarono con le arringhe tenute a Roma durante tutto il periodo antecendente l’entrata in guerra, durante le cosiddette “radiose giornate di maggio”. Con lo scoppio del conflitto con l’Austria-Ungheria, D’Annunzio, nonostante avesse 52 anni, ottenne di arruolarsi come volontario di guerra nei Lancieri di Novara, partecipando subito ad alcune azioni dimostrative navali e aeree. Per un periodo risiedette a Cervignano del Friuli e Santa Maria la Longa, località vicine al Comando della III Armata, a capo della quale era il suo estimatore Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta.
Ottenuto il brevetto di Osservatore d’aereo, nell’agosto 1915 effettuò un volo sopra Trieste insieme al suo comandante e carissimo amico Giuseppe Garrassini Garbarino, lanciando manifesti propagandistici; nel settembre 1915 partecipò a un’incursione aerea su Trento e nei mesi successivi, sul fronte carsico, a un attacco lanciato sul monte San Michele nel quadro delle battaglie dell’Isonzo. Il 16 gennaio del 1916, a seguito di un atterraggio d’emergenza, nell’urto contro la mitragliatrice dell’aereo riportò una lesione all’altezza della tempia e dell’arcata sopracciliare destra. La ferita, non curata per un mese, provocò la perdita dell’occhio che tenne coperto da una benda; anche da questo episodio trasse ispirazione per autodefinirsi e autografarsi come l’Orbo veggente. Dopo l’incidente passò un periodo di convalescenza a Venezia, durante il quale, assistito dalla figlia Renata, compose il Notturno. L’opera, interamente dedicata a ricordi e riflessioni legati all’esperienza di guerra, fu pubblicata nel 1921. Tornò al fronte: nel settembre 1916 partecipò a un’incursione su Parenzo e, nell’anno successivo, con la III Armata, alla conquista del Veliki e al cruento scontro presso le foci del Timavo nel corso della decima battaglia dell’Isonzo.
Nell’agosto del 1917 compì, con i piloti Maurizio Pagliano e Luigi Gori e il loro Caproni Ca.33, decorato con l’Asso di Picche, tre raid notturni su Pola (3, 5 e 8 agosto). Alla fine del mese effettuò col medesimo equipaggio attacchi a volo radente sulla dorsale dell’Hermada, riportando una ferita al polso e rientrando con il velivolo forato da 134 colpi. A settembre parve realizzarsi la possibilità di effettuare l’agognato raid su Vienna. A tal fine, con Pagliano e Gori compì un volo dimostrativo di 1000 km in 9 ore di volo, ma all’ultimo istante il consenso al raid venne negato. Alla fine di settembre si trasferì a Gioia del Colle (BA), inquadrato sempre con Pagliano e Gori, oltre al tenente Ivo Oliveti, Casimiro Buttini, Gino Lisa, Mariano D’Ayala Godoy, Andrea Bafile e il corrispondente di guerra del Corriere della Sera Guelfo Civinini, nel Distaccamento A.R., comandato dal maggiore Armando Armani, sui Caproni Ca.33 e al comando della 1ª Squadriglia bis, per compiere una missione sulle installazioni navali del golfo di Cattaro. L’impresa venne portata a termine con successo, sempre con Pagliano e Gori, la notte del 4 ottobre, volando per oltre 500 km sul mare, senza riferimenti, orientandosi con la bussola e le stelle. Alla fine di ottobre, durante la battaglia di Caporetto, incitò i soldati, pronunciando discorsi appassionati. Nel febbraio del 1918, imbarcato sui MAS 96 della Regia Marina, partecipò al raid navale, denominato la beffa di Buccari, azione dedicata alla memoria dei suoi compagni di volo Pagliano e Gori, caduti il 30 dicembre.
L’11 marzo 1918, con il grado di maggiore, assunse il comando della 1ª Squadriglia navale S.A. del campo volo di San Nicolò del Lido di Venezia, primo esperimento di siluranti aeree, chiamata Squadra aerea San Marco, e ne coniò il motto: Sufficit Animus (“È sufficiente [anche solo] il coraggio”). Tale squadriglia era mista, in quanto formata da aeroplani da ricognizione-bombardamento (velivoli SIA 9B – 4 velivoli nel 1º semestre 1918 e 7 velivoli nel 2º semestre 1918) e da ricognizione/caccia (10 velivoli Ansaldo S.V.A.).
Nell’agosto del 1918, alla guida della 87ª Squadriglia aeroplani “Serenissima”, equipaggiata con i nuovi velivoli SVA 5, realizzò il suo sogno: il Volo su Vienna. Preso posto su uno SVA modificato, pilotato dal capitano Natale Palli, il 9 agosto raggiunse con una formazione di sette aeroplani la capitale asburgica, compiendo un volo di oltre 1000 km, quasi tutti sorvolando il territorio in mano al nemico. L’azione, dal carattere esclusivamente psicologico e propagandistico, fu caratterizzata dal lancio di migliaia di manifestini nei cieli di Vienna, con scritte che inneggiavano alla pace e alla fine delle ostilità. L’eco e la risonanza di tale azione furono enormi e perfino il nemico dovette ammetterne il valore. Fino al termine del conflitto, D’Annunzio si prodigò in innumerevoli voli di bombardamento sui territori occupati dall’esercito austriaco, fino alla battaglia finale, ai primi di novembre 1918.
Si congedò con il grado di tenente colonnello, inusuale, all’epoca, per un ufficiale di complemento (ebbe tre promozioni per merito di guerra); gli verrà anche concesso nel 1925 il titolo onorario di generale di brigata aerea. Fu insignito di una medaglia d’oro al valor militare, cinque d’argento e una di bronzo. Nell’immediato dopoguerra D’Annunzio si fece portatore di un vasto malcontento, insistendo sul tema della “vittoria mutilata” e chiedendo, in sintonia con il movimento dei combattenti, il rinnovamento della classe dirigente in Italia. Lo stesso clima di malcontento portò all’ascesa di Benito Mussolini, che di qui al 1922 avrebbe condotto il fascismo a prendere il potere in Italia.
Durante il conflitto D’Annunzio conobbe il poeta giapponese Harukichi Shimoi, arruolatosi negli Arditi dell’esercito italiano. Dall’incontro dei due poeti-soldati nacque l’idea, promossa a partire dal marzo 1919, del raid aereo Roma-Tokyo, ovviamente pacifico, a cui il Vate voleva inizialmente partecipare, e che fu portato a termine dall’aviatore Arturo Ferrarin.
L’impresa di Fiume (1919-1921)
Nel settembre 1919 D’Annunzio, insieme con un gruppo paramilitare, guidò una spedizione di “legionari”, partiti da Ronchi di Monfalcone (ribattezzata, nel 1925, Ronchi dei Legionari in ricordo della storica impresa), per l’occupazione della città di Fiume, che le potenze alleate vincitrici non avevano assegnato all’Italia. Con questo gesto D’Annunzio raggiunse l’apice del processo di edificazione del proprio mito personale e politico.
A Fiume, occupata dalle truppe alleate, già nell’ottobre 1918 si era costituito un Consiglio nazionale che propugnava l’annessione all’Italia, di cui fu nominato presidente Antonio Grossich. D’Annunzio con una colonna di volontari (tra i quali vi era anche Silvio Montanarella, marito della figlia Renata) occupò Fiume e vi instaurò il “Comando dell’Esercito italiano in Fiume d’Italia”. Il 5 ottobre 1920 aderì al Fascio di combattimento di Fiume.
D’Annunzio, che era anche comandante delle Forze Armate Fiumane, e il suo governo vararono tra l’altro la Carta del Carnaro, una costituzione provvisoria, scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris e modificata in parte da D’Annunzio stesso, che prevedeva, assieme alle varie leggi applicative e regolamenti varati, numerosi diritti per i lavoratori, le pensioni di invalidità, l’habeas corpus, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione e di orientamento sessuale, la depenalizzazione dell’omosessualità, del nudismo e dell’uso di droga, la funzione sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari, il tutto molto tempo prima di altre carte costituzionali dell’epoca.
Alle 9 corporazioni originarie ne aggiunse una decima, costituita dai cosiddetti “uomini novissimi”. Gli articoli XLIII e XLIV delineano la figura di un “Comandante” (lo stesso D’Annunzio), eletto con voto palese, una sorta di dittatore romano, attivo per il tempo di guerra, che detiene “la potestà suprema senza appellazione” e “assomma tutti i poteri politici e militari, legislativi ed esecutivi. I partecipi del Potere esecutivo assumono presso di lui officio di segretarii e commissarii.”
Prima della fine dell’esperienza fiumana, la Reggenza del Carnaro sarà il primo Stato indipendente al mondo – anche se autoproclamato e non ufficiale – a riconoscere nel 1920 la legittimità della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa che nel 1923, unendosi alle altre repubbliche federali a essa subordinate, sorte sulle ceneri dell’Impero Russo durante la rivoluzione d’ottobre, diverrà l’Unione Sovietica; in cambio, i sovietici, guidati da Lenin, furono gli unici al mondo a riconoscere l’indipendenza statale di Fiume dalla Jugoslavia. D’Annunzio per un certo periodo guardò con simpatia ai bolscevichi, tanto che il 27 e il 28 maggio 1922 ospitò al Vittoriale Georgij Vasil’jevič Čičerin, commissario sovietico agli affari esteri arrivato in Italia per la conferenza di Genova. Tuttavia nel 1926 esprimerà invece critiche contro il governo sovietico.
Il 12 novembre 1920 una delegazione di ufficiali del Ministero della Guerra, di cui faceva parte anche Pietro Micheletti, stipulò il trattato di Rapallo: Fiume divenne città libera e Zara passò all’Italia, ma D’Annunzio non accettò l’accordo e il governo italiano di Giovanni Giolitti il 26 dicembre 1920 fece sgomberare i legionari con la forza, causando numerosi morti, nel cosiddetto “Natale di sangue“. Ai tempi di Fiume D’Annunzio soprannominò sprezzantemente Cagoja l’ex primo ministro Francesco Saverio Nitti, in relazione alla sua contrarietà verso l’annessione di Fiume. Nel 1924 lo Stato libero di Fiume fu infine annesso all’Italia, e italiano rimase fino al 1945.
… omissis …
Fonte degli articoli : Wikipedia , per ulteriori approfondimenti data la vastità dell’argomento dannunziano.
9.19
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