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Squadrismo, Camicie Nere, Fascisti , manganello e olio di ricino …

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Acquisto materiale dello squadrismo, berretti, uniformi, medaglie, distintivi …

Lo squadrismo fu un fenomeno politico-sociale verificatosi in Italia a partire dal 1919 che consistette nell’uso di squadre d’azione paramilitari armate che avevano lo scopo d’intimidire e reprimere violentemente gli avversari politici, specialmente quelli appartenenti al movimento operaio; fu in breve tempo assorbito dal fascismo che lo usò come strumento della propria affermazione.

Premessa

La grande smobilitazione seguita al termine della Grande Guerra del 1915-1918 aveva prodotto una grande quantità di reduci che, rientrati nella vita civile, si ritrovarono disoccupati e senza concrete prospettive di lavoro. Parte di essi si erano battuti a favore dell’interventismo e avevano combattuto come volontari, perché mossi da ideali  nazionalisti  e irredentisti. Al loro ritorno alla vita civile, alla quale spesso non riuscirono ad adattarsi, essi proseguirono, nel primo dopoguerra, la loro azione politica su posizioni di estrema destra, organizzandosi in maniera più o meno spontanea, sia per propagandare la loro visione politica, che per contrastare, anche con azioni dirette, le iniziative dei socialisti, i quali, stando su posizioni neutraliste nei confronti della guerra, erano accusati di “Disfattismo” dai primi.

Le prime formazioni

Questi primi reduci andarono a formare, insieme ai futuristi ed al Fascio di Difesa Nazionale, squadre organizzate che si attivarono in modo fattivo per combattere contro i socialisti, i quali in quel momento si trovavano in forte ascesa. In particolare si trattava di soldati lasciati allo sbando senza lavoro ed appartenenti alle unità di élite (come gli Arditi), cui lo Stato non concedeva alcun riconoscimento particolare per il ruolo ricoperto in guerra al momento del ritorno alla vita civile. Furono soprattutto Arditi ed ufficiali e sottufficiali dell’Esercito a divenire i più forti sostenitori di ciò che andavano sostenendo Mussolini e D’Annunzio, trovando in questi due i capi naturali e il riferimento ideale per incanalare la loro lotta in una direzione politica precisa e, per loro, appagante. Le azioni squadriste – di norma caratterizzate da violenze contro persone e cose (e talvolta anche da caratteri di mera goliardia) – avevano lo scopo, secondo ciò che affermavano gli squadristi, di impedire la realizzazione in Italia di una rivoluzione di ispirazione bolscevica e di rispondere alle crescenti rivendicazioni sociali degli operai e dei braccianti: gli squadristi cercarono di giustificare ideologicamente la loro attività presentandola come una risposta alle violente azioni e al clima di agitazione politica socialista e anarchica, che culminò con il biennio rosso (1919-1920), nonché come un’affermazione di quei valori nazionalisti che (secondo gli squadristi) erano stati vilipesi dal socialismo; tale giustificazione ideologica valse a nascondere, soprattutto agli occhi degli attivisti più giovani, il reale carattere di classe delle azioni squadriste, ammantandole di illusorie motivazioni morali.

Nonostante il loro carattere violento e intimidatorio, le azioni squadriste riscossero inizialmente un ampio consenso da parte degli strati più reazionari e più conservatori della borghesia; verso la fine del 1920, non solo i conservatori, ma anche esponenti popolari e Conservatori consideravano il fascismo uno strumento utile sia a ridurre la forza delle organizzazioni sindacali e politiche di stampo socialista, sia a fare pressione sul governo per indurlo a parteggiare in modo più risoluto a favore delle classi possidenti e ad abbandonare l’atteggiamento di neutralità nei conflitti sindacali che aveva caratterizzato il liberalismo giolittiano. Come documento di questa simpatia di cui il fascismo inizialmente godeva presso gli ambienti moderati, è stato citato ad esempio un commento attribuito ad Alcide De Gasperi:

«Noi non condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista sotto la generica condanna della violenza. Ci sono delle azioni in cui la violenza, anche se assume l’apparenza di aggressione, è in realtà una violenza difensiva, cioè legittima.»

Anni dopo, Gaetano Salvemini, pur riconoscendo qualche giustificazione alle primissime azioni squadriste del 1919 e dei primi mesi del 1920, evidenziò che l’attività degli squadristi successiva al biennio rosso non era più interpretabile come una reazione a precedenti violenze “bolsceviche” (benché tale fosse quasi sempre il pretesto addotto dagli squadristi). Infatti, secondo Salvemini, dopo la fine del biennio rosso lo squadrismo ebbe il carattere di un’offensiva antisindacale violenta e indiscriminata, che fu diretta contro tutte le organizzazioni operaie (non solo socialiste, comuniste o anarchiche, ma anche cattoliche e repubblicane); offensiva che si esercitò fuori dalla legalità e che, secondo Salvemini, risultò vittoriosa non in virtù del sedicente “eroismo” degli squadristi, bensì in virtù dell’appoggio economico da parte degli industriali e dei proprietari terrieri, nonché in virtù del sostegno, più o meno palese, da parte delle autorità militari, della polizia e della magistratura:

«Foraggiando i fascisti, gli industriali, i proprietari terrieri e i banchieri non compivano nessuna azione che esorbitasse dai loro diritti. Il capitale, come il lavoro, è una forza sociale, ed era naturale che i capitalisti fornissero fondi alle loro ‘guardie bianche’, così come gli operai e i contadini contribuivano a mantenere i loro propagandisti e i loro organizzatori.
Persino gli atti di violenza commessi dai fascisti nei primissimi mesi della loro controffensiva possono considerarsi con una certa indulgenza. Dato che polizia e magistratura erano impotenti nella difesa dei privati cittadini contro la forza preponderante dei sindacati e del loro arbitrio, era ben giustificato che tali cittadini cercassero di difendersi per mezzo di metodi illegali.
Ma quando si sia riconosciuto tutto questo, rimane il fatto che, specialmente a partire dai primi del 1921, parlare di un fascista ucciso o ferito nel corso della guerra civile come di un ‘eroe’ o di un ‘martire,’ nella maggioranza dei casi è tanto assurdo quanto usare questi termini per un bandito, che rimanga inaspettatamente ucciso da una delle sue supposte vittime. Senza dubbio per fare il bandito ci vuole del coraggio, ma tale coraggio non va confuso con l’eroismo. La verità è che sia da una parte che dall’altra vi furono aggressori e aggrediti, assassini e vittime, imboscate ed assalti su terreno aperto, atti di coraggio e di tradimento; ma i fascisti, sostenuti economicamente da industriali, proprietari terrieri e commercianti, e politicamente da polizia, magistratura e autorità militari, godettero di una forza schiacciante.»
(G.Salvemini)

La nascita dei Fasci italiani di combattimento

Devastazione di una sede sindacale della CGL a Roma, con falò sulla strada delle carte e suppellettili ivi rinvenute

Il 23 marzo 1919 Mussolini fondò a Milano i Fasci italiani di combattimento, nei quali andarono a confluire in breve tempo la maggioranza delle squadre formatesi autonomamente sul territorio nazionale. Ciononostante, a causa del basso numero di adesioni, almeno per tutto il 1919 l’iscrizione coincideva spesso con l’attività di squadrista. Solo nella Venezia Giulia, che sarebbe stata di lì a poco assegnata all’Italia con il Trattato di Saint Germain e che quindi viveva un periodo di forte esaltazione nazionalistica, l’adesione ai Fasci italiani di combattimento assunse subito caratteri di massa, mentre nel resto del territorio nazionale l’espansione dello squadrismo fu limitata alle sole città del nord Italia. Ciò fu dovuto principalmente alla vicinanza della Venezia Giulia stessa al confine orientale che, sottoposto a rivendicazioni territoriali e politiche (irredentismo), convogliò sui Fasci di combattimento le simpatie dei nazionalisti. A questi si aggiunsero inoltre numerosi legionari dannunziani reduci dell’Impresa di Fiume, che ne costituirono il nerbo iniziale.

Le due anime dello squadrismo

Durante il biennio rosso, nelle principali città italiane sorsero gruppi di volontari che si organizzarono in “leghe antibolsceviche”, allo scopo di sostituire i dipendenti pubblici durante gli scioperi politici, assicurando così lo svolgimento di determinati servizi pubblici essenziali (circolazione dei mezzi di trasporto pubblico, pulizia delle strade). Questi volontari, perlopiù di estrazione borghese (spesso studenti o ex ufficiali) e mossi da ideali nazionalisti e antisocialisti, furono i precursori dello squadrismo urbano, il quale, fra il 1919 e l’estate del 1920, realizzò soprattutto attacchi dimostrativi contro manifestazioni socialiste e sedi del movimento operaio. Tuttavia la vera nascita dello squadrismo è collocata nell’autunno 1920 dopo i cosiddetti Fatti di Palazzo d’Accursio.

Questo primo squadrismo urbano si richiamava al sansepolcrismo e pertanto esprimeva confuse istanze di rinnovamento in materia di politica e di economia, associando tendenze socialiste e tendenze nazionaliste. Inoltre la presenza di elementi di origine futurista e arditista conferiva allo squadrismo un suo carattere di sovversione e di opposizione ai valori e alla cultura tradizionali della borghesia.

Fu questo il momento in cui Marinetti, in un suo articolo pubblicato nel 1919, propose una sintesi fra nazionalismo e anarchia, basata sull’esperienza futurista che aveva esaltato “sia il patriottismo sia l’azione distruttiva degli amanti della libertà”.

Ma l’originario progetto politico mussoliniano (sansepolcrismo) di creare uno schieramento progressista imperniato sul combattentismo rivoluzionario era destinato fin dall’inizio al fallimento, a causa di vari fattori: prima di tutto perché il Fascio di Milano, che aveva elaborato il programma di San Sepolcro, era molto più a sinistra di quanto non fossero gli altri Fasci; poi perché i Fasci avrebbero potuto realizzare tale programma solo ottenendo l’appoggio delle masse degli operai e dei contadini, che invece davano il loro consenso al Partito Socialista Italiano e alla CGdL. L’abisso tra il fascismo e la classe operaia, anziché restringersi, divenne incolmabile dopo l’assalto squadrista alla redazione dell'”Avanti!” del 15 aprile 1919, nonostante alcuni tentativi da parte di Mussolini di riavvicinare il suo vecchio partito (principalmente nel ’19 e nel ’21). Il partito socialista non condivideva inoltre le idee nazionaliste di fascisti, futuristi, sindacalisti rivoluzionari, interventisti, fiumani, reduci ed arditi, e il suo pacifismo di principio lo portava a polemizzare con tutti i movimenti politici degli ex combattenti. Il fallimento del progetto politico sansepolcrista divenne evidente con la disfatta fascista alle elezioni politiche del 16 novembre 1919, nelle quali i Fasci di combattimento mancarono l’obiettivo di concordare una lista unitaria nazionale della sinistra interventista, anche a causa delle forti diffidenze che specialmente i repubblicani e i sindacalisti rivoluzionari nutrivano nei confronti del fascismo e dello stesso Mussolini, accusati, il primo di essere un movimento apparentemente rivoluzionario ma in realtà reazionario e il secondo di eccessiva spregiudicatezza. In queste elezioni i Fasci di combattimento riuscirono a presentare una propria lista solo per la circoscrizione di Milano, ottenendo in tutto 4.657 voti (su circa 270.000 votanti) e nessun eletto.

I Fasci iniziarono ad affermarsi solo nella seconda metà del 1920, ma a quell’epoca il fascismo si profilava ormai chiaramente come un movimento orientato a destra. Dopo la sconfitta del movimento operaio, avvenuta nel settembre 1920 (con la fine dell’occupazione delle fabbriche), iniziò a svilupparsi lo squadrismo agrario, il quale, nelle zone rurali, forte dell’appoggio anche finanziario da parte dei proprietari terrieri, iniziò a colpire gli uomini e le sedi del Partito socialista e dei sindacati di sinistra. Lo squadrismo agrario ebbe alcuni punti di contatto con lo squadrismo urbano: in primo luogo perché, in Valle Padana, ebbe origine da nuclei di squadristi urbani di Bologna e di Ferrara; in secondo luogo perché anche gli squadristi agrari erano accesamente antisocialisti e antibolscevichi; in terzo luogo perché anche lo squadrismo agrario era nazionalista e difendeva le ragioni degli ex combattenti. Al di là dei suddetti punti di contatto, lo squadrismo agrario si differenziò da quello urbano, in quanto ebbe carattere più nettamente reazionario e inequivocabilmente di destra ed ebbe quale unico obiettivo reale la difesa degli interessi delle classi possidenti. I grandi proprietari terrieri della Valle Padana si avvalsero dello squadrismo, provvedendolo di denaro e di armi, allo scopo di smantellare l’apparato organizzativo del movimento operaio e contadino: perciò la violenza squadrista si abbatté soprattutto sulle amministrazioni comunali a guida socialista, sui sindacati, sulle cooperative e sulle società di mutuo soccorso; in tale opera di distruzione, lo squadrismo si avvalse sovente della connivenza di autorità pubbliche e forze dell’ordine; la reazione padronale fu originata, più che dalla paura di una rivoluzione proletaria (che diventava sempre più improbabile, vista la debolezza del movimento operaio che fece seguito alle sconfitte del biennio rosso), dal desiderio di azzerare tutta una serie di miglioramenti sindacali che erano stati conseguiti dal socialismo riformista negli anni precedenti. Con riferimento al primo semestre del 1921 sono state contate, in generale, 726 distruzioni operate dalle squadre fasciste: 17 giornali e tipografie, 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 8 società mutue, 141 sezioni socialiste o comuniste, 100 circoli di cultura, 10 biblioteche popolari o teatri, 28 sindacati operai, 53 circoli operai ricreativi, un’università popolare. Secondo la stima di uno storico, fra il 1921 e il 1922 i fascisti uccisero in tutto circa tremila persone. Secondo un’altra stima, circa cinquecento o seicento furono le vittime della violenza fascista nel solo 1921. Gli squadristi uccisi fra il 1919 e la Marcia su Roma furono in tutto 425, di cui 4 nel 1919, 36 nel 1920, 232 nel 1921 e 153 fra il 1º gennaio e il 31 ottobre 1922.

Uno degli obiettivi che il padronato cercò di conseguire appoggiando le violenze squadriste fu quello di spingere lo Stato ad abbandonare il suo ruolo neutrale nelle controversie di lavoro: capitalisti e agrari affermavano, infatti, che le squadre provvedevano alla difesa della proprietà contro la “violenza rossa”, difesa che – secondo il punto di vista padronale – lo Stato trascurava di esercitare. Nei fatti, invece, all’inizio del 1921 il movimento operaio e contadino aveva già cessato di costituire una minaccia per l’ordinamento sociale e, quando commetteva delle violenze, queste erano ormai perlopiù in risposta alle violenze fasciste; cosicché, in realtà, la “violenza rossa”, contro cui il padronato chiedeva di essere tutelato, altro non era – secondo l’espressione di Renzo De Felice – che “l’estrema difesa proletaria delle proprie libertà e dei propri diritti sindacali”. Vi è perciò un marcato contrasto fra, da una parte, la realtà dello squadrismo (braccio armato di un movimento politico, quello fascista, che storicamente è stato “soprattutto reazione borghese-capitalistica contro la classe lavoratrice”), e, dall’altra, il mito che gli squadristi coltivarono di loro stessi: mito secondo cui gli squadristi vollero considerarsi espressione genuina e incorrotta di istanze popolari e rivoluzionarie. Una caratteristica dello squadrismo, anticipata dai futuristi nelle loro manifestazioni interventiste, fu la capacità di far ricorso alla piazza mobilitando rapidamente minoranze attive ed aggressive, realizzando così una forma di violenza politica nuova per l’epoca, tanto che fu capace di scompaginare il partito socialista, basato su un’organizzazione minuziosa e ramificata attraverso una rete fittissima di leghe, camere del lavoro, cooperative, sindacati, enti locali, etc. Questo tipo di violenza era parte integrante della strategia con la quale il fascismo intendeva conseguire la sua ascesa al potere.

Nella situazione italiana di allora, la volontà di costruzione di un sindacalismo fascista si scontrava con le organizzazioni socialiste, di stampo leninista ed internazionalista.

Lo squadrismo urbano

I primi atti squadristici avvennero inizialmente a Milano nel 1919, ma anche a Mantova, Brescia e Padova. A parte il caso della Venezia Giulia, dove era forte la presenza dei legionari fiumani, nei primi tempi lo squadrismo rimase collocato in un ambito ristretto, rimanendo appannaggio principalmente di futuristi, sindacalisti rivoluzionari e reduci di esercito e corpi speciali in congedo (in particolare gli Arditi); ma non mancavano elementi di ogni classe sociale tra i quali predominavano gli studenti universitari. La giovane età della gran parte degli squadristi ha fatto interpretare ad alcuni autori la rivoluzione fascista come una rivoluzione generazionale. Il primo nucleo di squadristi fu composto da circa 200 uomini, tutti sindacalisti rivoluzionari ed Arditi, che sostanzialmente costituirono la guardia personale di Mussolini, il quale tempo dopo ebbe a dire al riguardo: «Nel complesso erano alcune centinaia di uomini, suddivisi in gruppi agli ordini di ufficiali, e ovviamente ubbidivano tutti a me. Io ero una specie di capo di questo piccolo esercito.»

Nel 1920 in tutte le principali città cominciarono ad essere formate squadre d’azione armate ed alle dipendenze del Fascio di combattimento locale.

Lo squadrismo agrario

Furono le province neo-redente quelle in cui vennero realizzate le prime squadre d’azione. La prima di queste venne infatti formata a Trieste il 20 maggio 1920 e furono queste squadre delle città provinciali e di campagna quelle grazie alle quali il fascismo irruppe, a partire dalla fine del 1920, in tutta la Valle Padana ed oltre. Definiti da Gabriele D’Annunzio “scherani dello schiavismo agrario” gli squadristi delle campagne distrussero, usando la violenza, le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra, leghe bracciantili e cooperative, a tutto vantaggio dei proprietari terrieri, degli affittuari e anche dei commercianti che soffrivano la concorrenza delle cooperative rosse. Tuttavia, una parte dello squadrismo agrario, che faceva capo ad esponenti quali Dino Grandi, Italo Balbo, Edmondo Rossoni, cercò non solo di svolgere un’azione meramente antisocialista, ma anche di organizzare i contadini, dopo la distruzione delle leghe rosse, in sindacati fascisti. Ma già nel corso del 1921 fu chiaro che il ruolo del sindacalismo fascista era puramente demagogico e che la reale sostanza di esso era la difesa degli interessi padronali.

A partire dal 1921 il fascismo riuscì a costituire delle roccaforti importanti, concentrate soprattutto nella pianura padana (come Bologna e Ferrara), dalle quali si estesero anche ai centri secondari più vicini. In questa fase la maggior parte degli squadristi era composta da giovani studenti nazionalisti, reduci di guerra (perlopiù arditi e legionari fiumani) e componenti delle vecchie formazioni paramilitari, che avevano già contrastato i socialisti durante il cosiddetto biennio rosso. Le azioni squadriste contro i socialisti, soprattutto nelle campagne, attirarono l’interesse dei piccoli proprietari terrieri e dei latifondisti che, non essendo riusciti a costituire una propria organizzazione politica, finanziarono quella dei Fasci Italiani di Combattimento. Non di rado gli stessi figli dei proprietari terrieri e dei mezzadri militarono attivamente nelle squadre d’azione.
Tra i tanti esempi si possono citare quelli di Cesare Forni e di Enea Venturi (vedere più sotto l’elenco degli agrari-squadristi). Lo sviluppo del fenomeno squadrista nelle campagne diventa vigoroso quando, impostosi come valida risposta alla sinistra agli occhi dei proprietari terrieri, questi cominciarono a finanziare generosamente le squadre fasciste, addirittura con forme di vera e propria autotassazione interna tra gli agrari maggiormente preoccupati dallo sviluppo delle leghe contadine e bracciantili rosse.

Le violenze

Lo squadrismo fascista è stato protagonista di numerosi episodi di violenza. Sono state elencate varie cause e fattori concomitanti della violenza squadrista: la motivazione principale fu la lotta di classe dei possidenti contro l’organizzazione sindacale operaia e contadina, condotta soprattutto per iniziativa dei proprietari, ma talvolta anche per reazione alle violenze operaie del biennio rosso; ad essa si accompagnarono però altre concause: la lotta per il potere amministrativo a livello locale; le finalità propagandistiche e intimidatorie degli atti di violenza; gli effetti psicologici e sociologici della Prima guerra mondiale da poco conclusa, la quale aveva esacerbato i conflitti sociali e abituato gli animi alla violenza; la debolezza dell’apparato repressivo dello Stato, che non contrastò adeguatamente lo squadrismo; altre cause ancora, che tennero in vita le squadre anche dopo che queste ultime ebbero vinto lo scontro di classe contro gli operai e i contadini, vale a dire: le ambizioni dei ras locali, l’esigenza di conquistare definitivamente il potere politico, le lotte di potere interne al fascismo, il cameratismo fra gli squadristi. La pratica delle spedizioni punitive venne basata sulle tecniche d’assalto e sulle tattiche degli arditi, confluiti in massa nelle squadre d’azione. La definizione venne mutuata dalla celebre, ma fallimentare, Strafexpedition austriaca sul fronte degli Altopiani nel 1916 ed indica un concentramento di uomini contro un solo obiettivo: di norma, una sede socialista o sindacale (più raramente di altri movimenti rivali, come i popolari o i repubblicani). L’azione spesso era condotta anche con metodi spettacolari o goliardici, tesi non solo a impaurire l’avversario, ma anche a scoraggiare eventuali suoi sostenitori più tiepidi, nonché a suscitare simpatia nell’ampia “area grigia” che non intendeva schierarsi inizialmente né con l’una né con l’altra parte.

Gli squadristi si avvicinavano a bordo di camion aperti (generalmente i BL 18 in dotazione all’Esercito), cantando inni e mostrando le armi ed i manganelli, quindi assalivano l’avversario praticando una sistematica devastazione: si colpivano le sedi ed i luoghi di aggregazione dei partiti (principalmente il partito socialista), le Camere del Lavoro, le sedi di cooperative e leghe rosse. Queste venivano danneggiate o, spesso, completamente devastate, le suppellettili e le pubblicazioni propagandistiche bruciate nella pubblica piazza, gli esponenti o i militanti delle fazioni avverse bastonati e costretti a bere olio di ricino. Tali azioni di norma davano luogo a scontri fisici o con bastoni; spesso però, specialmente nelle fasi più calde del conflitto, diventava frequente l’uso di armi da fuoco e persino da guerra, cosicché le azioni terminavano con feriti e morti, sia tra le diverse fazioni in campo, che tra le forze dell’ordine. Solo in certi episodi, gli scontri fra gli squadristi e i loro avversari politici avvenivano per iniziativa di questi ultimi, ed in particolare dei comunisti, che ambivano a porsi come avanguardia e a prendere il posto dei socialisti; perciò, in alcune località, dimostrando aggressività e intransigenza, si ponevano a capo dei proletari esacerbati dalle incessanti violenze squadriste e dall’ingiustizia degli interventi polizieschi; quasi sempre, però, la responsabilità dei conflitti era da attribuirsi ai fascisti, il cui obiettivo era di smantellare completamente le organizzazioni operaie e di intralciare con la violenza il corretto svolgimento delle consultazioni elettorali.

Giacomo Matteotti, in un discorso parlamentare del 10 marzo 1921, tracciò la seguente vivida descrizione delle “spedizioni punitive” squadriste nel suo collegio elettorale: «Mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire, arrivano i camions di fascisti nei paeselli, nelle campagne, nelle frazioni composte di poche centinaia di abitanti; arrivano accompagnati naturalmente dai capi dell’agraria locale, sempre guidati da essi, perché altrimenti non sarebbe possibile conoscere nell’oscurità in mezzo alla campagna sperduta la casetta del capolega o il povero miserello ufficio di collocamento, si presentano davanti alla casetta e si sente l’ordine: “Circondate la casa!” Sono venti, sono cento persone armate di fucili e rivoltelle. Si chiama il capolega e gli si intima di scendere; se il capolega non discende, gli si dice: “Se non scendi ti bruciamo la casa, tua moglie, i tuoi figlioli”. Il capolega discende: se apre la porta lo pigliano, lo legano, lo portano sul camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili, fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo, legato ad un albero. Se il capolega è un uomo di fegato e non apre e adopera le armi per la sua difesa, allora è l’assassinio immeditato che si consuma nel cuore della notte. Cento contro uno. Questo è il sistema del Polesine.»

È da evidenziare che le squadre d’azione non erano costituite solo da attivisti (come ad esempio Dino Grandi, Italo Balbo, Giuseppe Bottai, nomi di spicco dello squadrismo), poiché all’interno di esse andarono ad inserirsi personaggi con un passato personale discutibile e precedenti penali anche gravi (come l’omicidio) e dediti allo sfogo della propria indole violenta. Gli squadristi per ogni eventualità avevano a loro disposizione un coltello per la lotta corpo a corpo, ma anche armi da fuoco (generalmente pistole) e, in alcuni casi, bombe a mano sipe e thévenot. L’esperienza delle trincee ed il legame di cameratismo, assieme soprattutto alla struttura fortemente gerarchizzata e alla superiorità numerica e di armamento erano un atout delle squadre sugli avversari. Le fazioni più estreme di comunisti e anarchici opposero una forte resistenza e si organizzarono negli Arditi del popolo e nelle formazioni di difesa proletaria, riuscendo in alcuni casi a fronteggiare i fascisti (Fatti di Parma). Gli avversari politici, quando erano troppo inferiori in numero per affrontare le squadre d’azione a viso aperto, si contrapponevano con azioni di guerriglia, che scatenavano reazioni molto dure da parte dei fascisti, i quali consideravano tali azioni come “vili”. Gaetano Salvemini ha scritto che tra l’ottobre 1920 e l’ottobre 1922 si ebbero 406 morti fra “bolscevichi”, socialisti massimalisti e comunisti e 303 tra i fascisti oltre ad un elevato numero di morti fra le forze dell’ordine e i cosiddetti crumiri.

L’atteggiamento dell’apparato statale di fronte alle violenze squadriste

Gli squadristi poterono avvalersi della connivenza di vasti settori dell’apparato dello Stato, soprattutto a livello periferico, i quali dimostrarono (secondo le parole di uno storico) una significativa “tendenza a favorire, anche sfacciatamente, i fascisti”. Nelle zone in cui furono più forti, infatti, i fascisti furono favoriti dai funzionari statali (in particolare da quelli di livello inferiore), dalle Forze dell’Ordine, dalla magistratura e anche dall’esercito, che talvolta fornì loro armi ed equipaggiamenti. Infatti, molti funzionari e militi delle Forze dell’Ordine tendevano a considerare come “naturale” una loro alleanza con il fascismo contro il comune nemico “sovversivo” e “bolscevico” (anche perché, durante il biennio rosso, i socialisti avevano spesso infierito contro di loro con insulti e violenze).

«…Se nella prima metà del ’21 i fascisti poterono spadroneggiare in vaste zone d’Italia, condurre quasi impunemente la loro offensiva contro le organizzazioni “rosse” e influenzare notevolmente i risultati della consultazione elettorale del 15 maggio ciò non fu dovuto a volontaria debolezza del governo, ma a cause oggettive e soprattutto alle simpatie e alle connivenze che essi godevano tra le forze che avrebbero dovuto assicurare l’ordine e il libero svolgimento della campagna elettorale e delle votazioni. Invece di agire imparzialmente contro tutti i perturbatori dell’ordine pubblico, in moltissimi casi queste forze favorivano infatti i fascisti a danno dei loro avversari.» (Renzo De Felice)

Tale atteggiamento favorevole agli squadristi da parte di forze dell’ordine e magistratura è dimostrato da una statistica ufficiale, secondo cui, dall’inizio dell’anno fino all’8 maggio 1921, risultavano all’autorità di P.S. 1.073 casi di violenza tra socialisti e fascisti (di cui 964 denunciati all’Autorità giudiziaria), in conseguenza dei quali, però, erano stati arrestati 1.421 socialisti e solo 396 fascisti. Ciò fece sì che, nel 1921, la situazione dell’ordine pubblico in Italia fosse caratterizzata, secondo uno storico autorevole, “dal discatenamento su vasta scala della più brutale violenza fascista e dalla incapacità dello Stato non solo di contenerla, ma perfino di far rispettare la legge laddove era più sfacciatamente violata e addirittura calpestata”. Secondo uno storico, “una consistente minoranza di prefetti, commissari e questori sostenne attivamente l’attività squadristica, talvolta in modo così evidente da costringere il governo a disporre trasferimenti d’ufficio, censure e altri provvedimenti disciplinari”.

La complicità fra potere esecutivo e squadristi è sarcasticamente commentata da una canzone popolare dell’epoca:

«’Sti quattro delinquenti co’ le facce come er sego
portavano la morte e il me ne frego
anche noi ce ne saressimo fregati
se il governo come a lor ci avesse armati…»

Peraltro, quando accadeva che le Forze dell’Ordine si opponessero agli squadristi, questi ultimi, anche se ben provvisti in uomini e in armi, erano sbaragliati senza difficoltà. Tra i principali episodi in cui gli squadristi subirono repressioni da parte della forza pubblica ed ebbero la peggio in scontri sanguinosi con le Forze dell’Ordine, si possono menzionare i Fatti di Cittadella e i Fatti di Sarzana.

I piccoli proprietari terrieri, i mezzadri e le Leghe rosse

Nei primi due decenni del secolo si svilupparono due importanti dinamiche nel mondo agricolo. Nel 1901 a Bologna avvenne la costituzione di Federterra, legata al Partito Socialista prima ed al Partito Comunista d’Italia poi. In essa confluirono la maggior parte delle leghe contadine e finirà per monopolizzare il mercato del lavoro nel decennio successivo con l’obiettivo di “proletarizzare” i mezzadri, anziché aiutarli a diventare proprietari dei terreni che lavoravano. Tra il 1911 ed il 1921, d’altra parte, il numero dei piccoli proprietari terrieri era notevolmente aumentato, quasi fino a raddoppiare, avendo spesso acquistato le terre dai grandi proprietari terrieri. La rottura tra mezzadri e leghe socialiste avvenne per sfiancamento dei primi: da una parte i continui ed usuranti scioperi proclamati da queste ultime (culminati nel 1920), che spesso causavano la perdita del raccolto; dall’altra parte dai boicottaggi (ad esempio la mutilazione del bestiame) e dalla violenza esercitata per obbligarli a rispettare le decisioni delle leghe stesse. Federterra organizzò anche tribunali speciali, che disponevano misure di isolamento nei confronti dei proprietari più riottosi, tra le quali vi era il divieto di vendere o acquistare presso le cooperative rosse. Ciò provocava il collasso delle aziende agricole, dato il carattere monopolista delle cooperative stesse. Un esempio di questa violenza avvenne il 18 settembre 1920, quando il coltivatore cattolico Arcangelo Solferini fu ucciso per non aver aderito alle disposizioni delle leghe rosse. Il potere socialista crebbe enormemente fino al 1920, quando la maggior parte delle amministrazioni comunali e provinciali dell’Emilia e della Romagna furono conquistate dal Partito Socialista Italiano. Da quel momento le organizzazioni sindacali socialiste ottennero il monopolio della gestione del lavoro, mentre le cooperative socialiste furono in grado di imporre i prezzi delle derrate alimentari, gestire direttamente le imposte comunali (su immobili, attività produttive e famiglie) e concedere in affitto a chi volevano i terreni municipali.

«Inoltre nella valle Padana i coltivatori diretti, gli affittuari ed i mezzadri spesso si rivolsero contro i lavoratori giornalieri e si unirono alle squadre. A questo proposito è impossibile trascurare il contributo della violenza socialista alla formazione dello squadrismo agrario. A Ferrara almeno furono per lo più i piccoli affittuari a correre i maggiori pericoli; due furono uccisi ed altri tre feriti durante gli scioperi generali del luglio-agosto 1920. Anche nella pacifica provincia di Rovigo, dove Matteotti fece di tutto per ostacolare l’intimidazione, membri delle organizzazioni cattoliche contadine furono spesso assaliti.
Mentre questo clima di intimidazione contribuì senza dubbio a provocare la reazione ed a giustificarla agli occhi dell’opinione pubblica, bisogna accuratamente distinguere tra violenza socialista e violenza fascista. La prima era normalmente non organizzata, più o meno spontanea e molto raramente sfociò in assassinii deliberati. Se non nel caso di coloro che boicottavano gli scioperi, la violenza contro le persone era normalmente ritenuta superflua, poiché i socialisti ritenevano di avere le forze, la ragione e la storia dalla loro parte. Per i fascisti agrari, d’altro canto, il terrore programmato era lo scopo della loro attività. […] I fascisti, infatti, spesso provocavano deliberatamente l’indignazione popolare per potere avere un alibi per intervenire con la forza.»
(Adrian Lyttelton)

La guerra civile 1921-1922

Tra il 1921 ed il 1922 l’Italia fu scossa da qualcosa di simile ad una guerra civile tra fascisti e antifascisti, che fu vinta sul campo dai primi, sia perché militarmente erano più forti, sia perché, come si è detto, godevano sovente dell’appoggio di vasti settori dell’apparato statale; gli squadristi godevano inoltre della simpatia dell’opinione pubblica borghese e conservatrice, rappresentata in particolare dai più importanti organi di stampa, che tennero spesso un atteggiamento tutt’altro che imparziale. Si è molto discusso, in sede storiografica, a proposito del ruolo del Governo Giolitti V nei mesi cruciali tra la fine del 1920 e la prima metà del 1921, quando si ebbe il tumultuoso sviluppo della violenza squadrista. Alcuni storici accusano senza mezzi termini Giovanni Giolitti di aver consapevolmente favorito lo squadrismo, lasciandogli campo libero, allo scopo di indebolire il Partito socialista, ridurne la rappresentanza parlamentare, favorire la scissione tra massimalisti e riformisti, per poi cooptare nel governo questi ultimi; una volta che fosse riuscita tale manovra, l’intenzione di Giolitti sarebbe stata poi quella di riprendere in mano la situazione dell’ordine pubblico e risospingere nuovamente i fascisti ai margini del quadro politico. Contro questa interpretazione, si è obiettato che non esistono documenti comprovanti un’azione positiva del governo Giolitti volta a favorire lo squadrismo, ma anzi Giolitti e il ministero degli Interni emanarono in quei mesi varie circolari e direttive, con cui si raccomandava ai prefetti di mantenere l’ordine pubblico, non tollerare illegalità né violenze da qualunque parte provenissero, assicurare il pacifico svolgimento delle consultazioni elettorali, vigilare sull’imparzialità e sull’obiettività delle forze dell’ordine, ecc.; tali direttive del Governo centrale risultarono purtroppo inefficaci e furono disapplicate dagli organi periferici dello Stato per responsabilità esclusiva di questi ultimi, avendo trovato i fascisti, come sopra si è detto, estese complicità e connivenze, a livello locale, con le strutture di base della polizia, della magistratura e dell’esercito.

Altri, ancora, hanno sottolineato come le complicità fra lo squadrismo e l’esercito non fossero limitate alla base di quest’ultimo, ma coinvolgessero anche gli alti comandi; e hanno osservato che, seppure non ci sono prove che il governo Giolitti abbia direttamente aiutato gli squadristi, di fatto l’azione di Giolitti finì per aprire politicamente la strada al fascismo, in quanto nella primavera del 1921 lo statista piemontese decise di sciogliere la Camera e di formare, per le successive elezioni politiche, liste di “blocco nazionale” comprendenti anche esponenti fascisti. Fu dunque per calcolo politico se Giovanni Giolitti tenne nei confronti del movimento fascista un atteggiamento benevolo, volto ad utilizzarlo per contrastare i socialisti, in quanto intenzionato a “costituzionalizzarlo” dopo essere arrivato al potere, ritenendo di esaurirne le potenzialità (a causa della perdita degli appoggi di coloro che temevano un’eventuale rivoluzione bolscevica) una volta venuti meno i loro avversari. Grave errore tattico (se non strategico) del partito socialista fu l’aver trascurato i sentimenti e le richieste dei combattenti, alienandosene la simpatia. Lo squadrismo contrastò infatti apertamente le iniziative politiche dei marxisti, considerate provocatorie ed offensive nei confronti della Patria e dei reduci di guerra: l’ammainamento del tricolore (a favore della bandiera rossa) nelle istituzioni guidate dai socialisti, l’erezione di monumenti di carattere antimilitarista, l’esaltazione di imboscati e disertori in spregio agli ex-combattenti. Uno di questi disertori, Francesco Misiano, fu eletto in Parlamento, suscitando la violentissima reazione degli squadristi di Roberto Farinacci che, il 13 giugno 1921, lo cacciarono con la forza dall’aula di Montecitorio.

Particolarmente pesanti furono anche e soprattutto le aggressioni fisiche, talvolta mortali, nei confronti di reduci, decorati ed ufficiali dell’Esercito (i fascisti giustificheranno le loro prime azioni proprio come rappresaglia a queste azioni). È storicamente accertato che, sebbene i principi politici, economici, culturali e sociali delle istanze fasciste abbiano avuto origine prima della guerra, la violenza fascista fu anche (sebbene non esclusivamente) una risposta alla violenza socialista del biennio rosso. Ebbe perciò un carattere inizialmente di rappresaglia nei confronti di un vero e proprio potere sovrano extra-statale creato dal partito socialista nelle zone dove si trovava più radicato. Tuttavia è storicamente priva di fondamento la tesi giustificatoria che fu talvolta invocata dai fascisti, secondo cui lo squadrismo sarebbe stato motivato dalla necessità di rispondere con la violenza alle “violenze bolsceviche” e sarebbe stato finalizzato a sventare il rischio di una rivoluzione comunista. Ci fu, infatti, una netta sproporzione fra l’entità delle violenze socialiste durante il biennio rosso e l’impatto ben maggiore della violenza fascista nel periodo 1921-22:

«Nel corso dei due anni della loro “tirannia” i “bolscevichi” non devastarono neppure una volta l’ufficio di una associazione degli industriali, degli agrari o dei commercianti; non obbligarono mai con la forza alle dimissioni nessuna amministrazione controllata dai partiti conservatori; non bruciarono neppure una tipografia di un giornale; non saccheggiarono mai una sola casa di un avversario politico. Tali atti di “eroismo” furono introdotti nella vita italiana dagli “antibolscevichi.” Inoltre va notato che mentre i delitti commessi dai “bolscevichi” negli anni 1919-20 furono quasi sempre compiuti da folle eccitate, le “eroiche” imprese degli “antibolscevichi” troppo spesso furono preparate e condotte a sangue freddo da appartenenti a quei ceti benestanti, che hanno la pretesa di essere i custodi della civiltà.» (G.Salvemini)

Inoltre nessuna reale possibilità di una rivoluzione comunista sussisteva più in Italia nel biennio 1921-22:

«È risaputo da tutti che il presupposto secondo cui il fascismo sorse per difendere l’Italia dal pericolo del bolscevismo non è comprovato dai fatti. […] Un pericolo bolscevico non c’era stato neanche nel 1919 o nel 1920. I disordini, gli scioperi e qualche tumulto furono conseguenze della guerra più o meno comuni a tutti i paesi. In Italia sembrarono particolarmente allarmanti ai turisti stranieri e ai commercianti, delusi nella loro ricerca di facili piaceri e di comodi affari, ma avrebbero potuto essere affrontati con la resistenza ordinaria dell’organismo nazionale e con la elasticità delle istituzioni liberali, come avvenne in Francia e altrove.» (G.A.Borgese)

Pertanto, autorevole storiografia nega che il carattere violento e totalitario del fascismo sia interpretabile come una mera risposta al bolscevismo, e afferma invece che tali caratteristiche siano intrinseche al fascismo stesso:

«In ogni modo, è storicamente certo che non fu la rivoluzione bolscevica ad aprire nell’Europa occidentale la via al totalitarismo […] ma fu la “marcia su Roma”, l’instaurazione del regime fascista e l’inizio di un inedito esperimento di dominio politico; tutto ciò avvenne per impulso autonomo, insito nella natura stessa del fascismo, e avvenne quando persino Mussolini affermava pubblicamente, fin dal 1921, che parlare ancora di “pericolo bolscevico” in Italia era una sciocchezza.» (E.Gentile)

Con il consolidarsi del movimento fascista, l’azione dello squadrismo iniziò ad assumere un carattere sistematico e organizzato, avente come orizzonte una vera e propria contro-rivoluzione sia ai danni dei sempre meno determinati tentativi rivoluzionari (ma anche solo riformisti) socialisti e bolscevichi, che dello Stato liberale, quando esso non si allineava alle posizioni fasciste o si mostrava troppo “tiepido” nei loro confronti. Ciò cominciò ad avvenire a partire dal 1920 nei confronti dei primi, con il refluire del “tentativo velleitario” rappresentato dall’occupazione rossa delle fabbriche e la conseguente esplosione dello squadrismo agrario, la cui azione venne inizialmente diretta a un’offensiva volta al sistematico smantellamento del sistema di leghe, cooperative e sindacati degli altri movimenti di massa (popolari, socialisti e poi comunisti). Durante le agitazioni sociali del biennio rosso, le classi possidenti avevano incontrato notevoli difficoltà ad organizzare la propria autodifesa. Queste difficoltà indussero i possidenti a fare ricorso a ex combattenti, arditi, futuristi, categorie che erano avvezze ad esercitare la violenza ed eventualmente pronte anche ad uscire dalla legalità. Da tali categorie provennero perlopiù i dirigenti del movimento fascista, i quali, dunque, si posero a servizio degli interessi della borghesia, anche se non rinunciarono a manifestare un certo disprezzo per la passività dei borghesi; tale disprezzo è espresso, ad esempio, nel seguente commento di Arpinati, che nell’aprile del 1920 era capo del fascio di Bologna:

«Certo è che questa borghesia bolognese […] non si è mossa se non quando si è sentita, coll’ultimo sciopero, minacciata nella propria sicurezza e nel proprio portafoglio» (L.Arpinati)

Nel 1920, di fronte allo sviluppo impetuoso del fenomeno squadrista, la dirigenza fascista si rese conto delle sue potenzialità ancora sostanzialmente inespresse per dare sfogo politico al movimento. Alla fine del 1920 fu lo stesso segretario dei Fasci di Combattimento Ugo Pasella a comunicare che l’obbiettivo principale del fascismo diventava quello di potenziare il suo apparato paramilitare, considerato di priorità strategica assoluta.

Il ruolo della componente squadrista nel regime fascista

La crescita del fenomeno squadrista anche nel 1921, giunta ben oltre gli obbiettivi locali di difesa delle classi medie e degli agrari, determinò nuovi problemi. Primo fra tutti fu proprio quello riguardante la convivenza con queste due ultime classi, in quanto la crescita numerica e qualitativa dello squadrismo, unita alla massiccia conquista territoriale nelle province, rese da questo momento il movimento stesso una realtà autonoma decisa a conseguire i propri scopi politici (che andavano a collidere con gli interessi economici della classe borghese e possidente) senza compromessi. Una volta distrutto il sistema economico-finanziario-sindacale socialista, lo squadrismo trovò perciò un nuovo nemico nei latifondisti e nei grandi proprietari terrieri, che ne avevano favorito l’ascesa, e nei commercianti, rei di non uniformarsi ai prezzi popolari “suggeriti”. Già a partire dalla fine del 1920, infatti, esponenti squadristi cercarono di caratterizzare il movimento come un’organizzazione che tentava di rigenerare moralmente e materialmente la patria, lottando da una parte contro il bolscevismo rosso e bianco, dall’altra contro i settori più egoisti della borghesia e le sue rappresentanze liberaldemocratiche. Queste istanze “rivoluzionarie” del primo fascismo derivavano, secondo l’analisi di alcuni storici, dalle origini prettamente piccolo-borghesi del movimento, che lo ponevano in polemica sia col capitale sia col proletariato; tuttavia, fra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, sotto la guida di Mussolini il fascismo si allineò sempre più agli interessi del grande capitale; gli elementi fascisti che erano maggiormente legati alla loro origine piccolo-borghese tentarono invano di preservarne l’originaria “carica rivoluzionaria”, rinchiudendosi nello squadrismo.

«La lotta contro il bolscevismo era un mezzo, non era un fine. Mirava molto più lontano. Così ebbe inizio la rivoluzione fascista contro la classe dirigente e contro il vecchio regime» (R.Farinacci)

Nel luglio del ’21 si ebbe un episodio che sembrò attestare la prevalenza dello squadrismo, e quindi di Farinacci che ne era il capo a livello nazionale, al vertice del fascismo oltre che per la forza d’urto e la capacità di diffusione nelle province, anche per la capacità di imporre le sue vedute politiche alla direzione nazionale. Durante il patto di pacificazione, con cui Mussolini tentò di trovare un accordo con i socialisti, la sollevazione dello squadrismo capeggiata da Farinacci, Marsich e dal Fascio bolognese, fu totale e portò alle dimissioni di numerosi esponenti di primo piano. Questa intransigenza compatta in tutto lo squadrismo, unita all’esasperazione dopo i recenti fatti di Sarzana, portò Mussolini a tornare sui suoi passi. In occasione di questo episodio, gli squadristi intransigenti non mancarono di sottolineare come il compito della rivoluzione non dovesse limitarsi a combattere i “sovversivi”, ma dovesse opporsi anche alla reazione bianca:

«Il fascismo deve opporre un’uguale fermezza nei confronti delle due forze che avevano fatto precipitare l’Italia verso la guerra civile: lo Stato-liberale e socialdemocratico e la plutocrazia bancaria» (Pietro Marsich)

Dopo la Marcia su Roma, tuttavia, il compromesso tra il fascismo e i suoi “fiancheggiatori” (vale a dire le classi dirigenti statali moderate e conservatrici: l’alta burocrazia, la classe politica del vecchio regime liberale, le forze sociali di cui queste ultime erano espressione e che continuavano a detenere l’effettivo potere politico ed economico), compromesso sul quale si reggeva il governo di Mussolini, si risolse sempre più a vantaggio dei “fiancheggiatori” e a discapito della componente “rivoluzionaria” del fascismo; il partito fascista risultò pertanto completamente amputato di qualsiasi “velleità rivoluzionaria” e ridotto sempre più ad un mero strumento dello Stato. In questo predominio dei “fiancheggiatori”, che perdurò e si rafforzò durante tutto il regime fascista, il grande sconfitto fu Roberto Farinacci, e con lui l’ala “intransigente” ed ex squadrista; Farinacci, man mano che il regime si consolidava, venne battuto politicamente da Mussolini, poi estromesso dalla segreteria del PNF e reso ininfluente, in una “parabola discendente” che ebbe inizio nell’ottobre 1925.

La sconfitta politica di Farinacci e della componente ex-squadrista “rivoluzionaria” dipese, secondo un’autorevole analisi storica, dalla debolezza della sua base sociale piccolo e medio-borghese, divisa al suo interno e incapace di egemonia nei confronti della altre classi sociali.

«Da qui la debolezza di fondo di Farinacci e del fascismo “rivoluzionario”, la loro delusione e il loro arroccarsi su di un intransigentismo tanto sterile quanto carico di represse velleità di rivincita, che – a seconda delle circostanze – si sarebbero manifestate sotto forma ora di improvvisi e bestiali scoppi di violenza, ora di sfoghi imperialistici, ora (specialmente dopo l’andata al potere di Hitler in Germania) di pressioni per un’alleanza con le altre forze fasciste “rivoluzionarie” europee, ora di accettazione di nuovi miti pseudorivoluzionari come quello razzista, ecc. […] Una volta che Mussolini aveva accettato […], pur di non essere estromesso dal potere, la trasformazione della “rivoluzione fascista” in una operazione trasformistico-autoritaria su vastissima scala […], è evidente che per lui non vi era alcuno spazio politico per l’intransigentismo farinacciano; ma – anzi – questo doveva finire per apparirgli l’elemento di maggiore dissonanza rispetto alla sua politica, tale non solo da non poter essere accettato, ma da dover essere respinto nel modo più vigoroso […]» (R.De Felice)

Secondo questa analisi, il compromesso tra fascismo e forze conservatrici si ruppe solo nel luglio 1943; con il crollo repentino del regime fascista, le due componenti su cui esso si reggeva si separarono: la componente “intransigente” ed ex-squadrista diede origine alla Repubblica Sociale Italiana, mentre la componente conservatrice, in un’ennesima operazione trasformistica, “toltasi la camicia nera, cercò, e in buona parte riuscì, a scaricare le proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti di una delle sue numerose vittime”.

Simbologia

Uno dei primi gagliardetti fascisti. Questo di Trieste riporta il motto dannunziano “Quis contra nos?”

Le squadre d’azione solitamente si riunivano in bar al di fuori della sede del Fascio dove costituivano il loro punto di raccolta. Qui erano anche raccolti i trofei sottratti agli avversari, in particolare le bandiere rosse simbolo dei socialisti, spregiativamente chiamate “stracci”, che venivano esposte al pubblico. Allo stesso modo si comportavano i socialisti e poi i comunisti, infatti molte delle risse che scoppiavano avvenivano solitamente nei pressi dei locali frequentati dall’una o dall’altra parte. L’abituale e costante frequentazione di particolari bar creava un grande spirito di coesione e di “cameratismo” tra gli avventori. Perquisizioni effettuate dalla polizia nei locali degli squadristi rinvennero numerosi manganelli e anche qualche rivoltella, questo armamento serviva all’abbisogna sia per difendere il locale da probabili assalti degli avversari sia di scorta durante le spedizioni punitive. Le squadre avevano come simbolo un gagliardetto nero, con sopra un motto o il nome. Questo era affidato ad un portabandiera e la sua difesa era considerata come il massimo dovere. In seguito il gagliardetto veniva portato in corteo e, lungo la strada, salutato dagli squadristi e dalla popolazione a costo di qualche scapaccione a chi non lo facesse (il famoso “giù il cappello!”). Simbolo degli squadristi era il teschio mutuato dagli arditi.

Poco a poco, a partire dalle squadre d’azione del ferrarese, si diffuse anche l’uso di indossare la camicia nera. Italo Balbo si vantò in seguito di aver guidato a Ferrara la prima spedizione in cui tutti gli squadristi indossavano una camicia nera. Diversamente da quello che spesso si è pensato la camicia nera non era stata mutuata dagli Arditi della Grande Guerra, ma era in realtà la divisa da lavoro degli operai emiliani e romagnoli. Grande importanza assunse il culto dei martiri fascisti, tanto da dare vita a rituali ben precisi come quello del “Presente!” di dannunziana memoria, scandito tre volte dal gruppo sugli attenti dopo la pronuncia del nome del caduto. Mussolini, ad esempio, durante l’orazione funebre del fascista Franco Baldini ucciso da militanti comunisti, parlò del defunto definendolo non una vittima ma, appunto, un martire. Nelle cerimonie funebri dei caduti fascisti si usava disporre numerose bandiere tricolori e cercare la partecipazione di associazioni di arma e di reduci di guerra. Alla cerimonia intervenivano anche moltissimi fascisti di altre città portando appresso i gagliardetti della propria squadra. Tra i caduti più importanti si ricordano Rino Daus e Giovanni Berta, insigniti del titolo di martiri della rivoluzione fascista e condotti a simbolo della guerra civile. Un momento di grande passione nazionale al quale parteciparono gli squadristi fu la translazione della salma del Milite Ignoto il 4 novembre 1921, in alcune città le manifestazioni in onore del Milite Ignoto furono promosse dai locali Fasci e, in alcune città come Grosseto, causarono scontri con i repubblicani. A questo tipo di celebrazione solamente socialisti e comunisti non aderirono. Fu adottata anche una “patrona degli squadristi”, la Madonna del manganello.

Nomi di Squadre d’Azione fasciste più ricorrenti

I nomi delle varie squadre era decise direttamente dagli appartenenti alla stessa. Ricorrono più spesso: nomi legati alla storia nazionale, come Giuseppe Garibaldi; termini e nomi relativi a vicende recenti come l’Impresa di Fiume, che porta a intitolazioni alla città di Fiume e a Gabriele D’Annunzio; ma si svegliavano anche nomi goliardici, di norma truci o spavaldi, il più frequente dei quali sembra essere “La Disperata”. Dopo la morte dei primi fascisti vennero intitolate squadre ai caduti, come Gastone Bartolini, deceduto dopo uno scontro a fuoco tra squadristi e regi carabinieri noto come i “Fatti di Sarzana”.

  • La Disperata
  • Giovinezza
  • Arditi della morte
  • Ardita
  • Filippo Corridoni
  • Me ne frego
  • Asso di bastoni
  • La Ramazza
  • Gastone Bartolini

Quadrumviri

Un quadrunvirato ebbe il compito di guidare le squadre d’azione fasciste durante la Marcia su Roma:

  • Italo Balbo
  • Michele Bianchi
  • Emilio De Bono
  • Cesare Maria De Vecchi

Capi Squadre d’azione

Tra i più importanti capi, personalità ed intellettuali dello squadrismo troviamo:

  • Leandro Arpinati, Bologna
  • Italo Balbo, Ferrara
  • Bernardo Barbiellini Amidei, Piacenza
  • Arconovaldo Bonacorsi, Bologna
  • Giuseppe Caradonna, Foggia
  • Giorgio Alberto Chiurco, Siena
  • Alfredo Cucco, Palermo
  • Araldo di Crollalanza, Bari
  • Ines Donati, Roma (una delle poche donne squadriste)
  • Amerigo Dumini, Firenze
  • Roberto Farinacci, Cremona
  • Cesare Forni, Pavia
  • Enzo Emilio Galbiati, Monza
  • Francesco Giunta, Fiume
  • Dino Grandi, Bologna
  • Ulisse Igliori, Roma
  • Mino Maccari, Siena
  • Curzio Malaparte, Prato
  • Pietro Marsich, Venezia
  • Ettore Muti, Ravenna
  • Aurelio Padovani, Napoli
  • Dino Perrone Compagni, Firenze
  • Giorgio Pini, Bologna
  • Raffaello Riccardi, Pesaro
  • Renato Ricci, Carrara
  • Achille Starace, Trentino-Alto Adige
  • Albino Volpi, Milano

Agrari-squadristi

A testimoniare dell’importanza assunta dallo squadrismo agrario, ci sono i casi di proprietari terrieri che non si limitano a finanziare lo squadrismo, ma diventano essi stessi personalità di spicco del movimento e spesso partecipano in prima persona alle azioni.

  • Cesare Balestreri, agrario di Cremona
  • Giuseppe Bellinetti, nel Polesine
  • Cesare Forni, possidente della Lomellina
  • il conte Ercole Premoli, possidente agrario di Crema
  • Enea Venturi, agricoltore e bonificatore della provincia di Bologna

Fonti Wikipedia