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PNF Partito Nazionale Fascista – Mussolini

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Acquisto materiale del PNF berretti, uniformi, medaglie, distintivi …

Mussolini, Benito. – Uomo politico (Dovia di Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra, Dongo, 1945). Socialista, si andò staccando dal partito, fino a fondare i Fasci da combattimento (1919). Figura emergente nell’ambito del neoformato Partito nazionale fascista, subito dopo la “marcia su Roma” (1922) venne incaricato dal re della formazione del governo, instaurando nel giro di pochi anni un regime dittatoriale. In politica internazionale Mussolini affrontò l’esperienza coloniale in Etiopia, si fece coinvolgere dai buoni rapporti con la Germania di Hitler nella persecuzione degli Ebrei, fino poi alla partecipazione al conflitto mondiale. I pessimi risultati bellici portarono il Gran Consiglio a votare la mozione Grandi presentata contro di lui (1943). Arrestato, fu liberato dai Tedeschi e assunse le cariche di capo dello Stato e del governo nella neonata Repubblica sociale. Alla fine della guerra fu catturato e fucilato dai partigiani per ordine del Comitato di liberazione nazionale. Dominò la storia italiana per oltre un ventennio, divenendo negli anni del suo potere una delle figure centrali della politica mondiale e incarnando uno dei modelli dittatoriali fra le due guerre.

VITA E ATTIVITÀ

Di estrazione popolare (il padre, Alessandro, era fabbro, e la madre, Rosa Maltoni, maestra), dotato di una personalità ribelle e intemperante, aderì giovanissimo alle idee socialiste e rivoluzionarie professate dal padre. Nel 1901, al termine di un disordinato corso di studi, conseguì il diploma magistrale e, iscritto al partito socialista, iniziò a collaborare alla Giustizia di C. Prampolini, specie con articoli antimilitaristi. Espatriato in Svizzera (1902-04) per sottrarsi alla leva, si sostenne facendo vari mestieri e si segnalò come acceso propagandista soprattutto sul versante anticlericale, mentre alcune letture soreliane contribuirono forse a indirizzarlo verso il sindacalismo rivoluzionario. Condannato per diserzione e poi amnistiato, rientrò a Predappio nel gennaio 1905, espletò gli obblighi di leva e si impiegò come maestro. Riprese quindi l’attività giornalistica e nel 1908 fu arrestato a seguito di uno sciopero bracciantile. Nel febbraio 1909, chiamatovi da C. Battisti, assunse la segreteria della camera del lavoro di Trento e la direzione dell’Avvenire del lavoratore. Espulso dai territori asburgici (settembre 1909), divenne dirigente della federazione socialista di Forlì e direttore del settimanale Lotta di classe. In questo periodo si unì con Rachele Guidi, che avrebbe sposato nel 1915, dalla quale ebbe i figli Edda, Vittorio, Bruno, Anna Maria e Romano. Nel 1911 subì una nuova condanna per aver guidato, con il repubblicano P. Nenni, le manifestazioni contro l’intervento in Libia, ma stava ormai emergendo come il più noto oratore e giornalista socialista, per cui, allorché i massimalisti prevalsero sui riformisti (congresso socialista di Reggio Emilia, luglio 1912), fu acclamato tra i maggiori dirigenti del partito e gli venne affidata, nel dicembre, la direzione dell’Avanti!. Si trasferì a Milano, dove aveva sede il quotidiano, che sotto la sua direzione acquistò molto in diffusione e influenza, perseguendo una linea classista e rivoluzionaria che in alcune occasioni (per es., allorché intese estendere lo sciopero generale scaturito dalla sollevazione di Ancona nel 1914) attirò la sconfessione di F. Turati e del gruppo parlamentare socialista. Nel dibattito sulla guerra Mussolini sostenne per vari mesi una posizione rigidamente neutralista, anche in contrasto con i molti che avevano fatto un percorso politico analogo al suo e che ora andavano orientandosi in favore dell’intervento, finché il 18 ottobre 1914, con una svolta improvvisa, pubblicò un proprio editoriale interventista. Il partito reagì immediatamente sottraendogli la direzione dell’Avanti! ed espellendolo, ma già il 14 novembre usciva il primo numero del Popolo d’Italia, quotidiano interventista da lui diretto. Consumata la rottura con il PSI, non era ancora consumato il rapporto con il movimento socialista, nel quale Mussolini avrebbe continuato ad avere un qualche seguito. Richiamato alle armi nel settembre 1915, nel febbraio 1917 venne ferito in un’esercitazione e tornò alla direzione del giornale. Nelle tensioni del dopoguerra Mussolini operò dapprima un cauto avvicinamento alle posizioni nazionaliste con la fondazione dei Fasci di combattimento (Milano, 23 marzo 1919), costituiti da un centinaio di ex combattenti (tra questi sindacalisti, arditi, ex socialisti, repubblicani, futuristi), il cui programma manteneva visibili impronte socialiste; quindi, anche alla ricerca di una base di massa per il suo movimento, intessé un confronto con i dannunziani, che avevano motivazioni largamente analoghe alle sue, e fece propria la parola d’ordine della vittoria mutilata; ma soprattutto cercò di unificare in un’unica tendenza i movimenti antiliberali e antigiolittiani, di destra come di sinistra, senza peraltro conseguire un successo nelle elezioni politiche del novembre 1919. Dopo l’occupazione delle fabbriche (autunno 1920) e la sconfitta del movimento operaio, nel corso di una crisi politica che vedeva declinante l’iniziativa socialista e in sempre maggior difficoltà la classe dirigente liberale, Mussolini, operando una visibile svolta, tese a presentarsi come capo di una forza capace di rappresentare le tendenze antiliberali della piccola e media borghesia spaventata dall'”ondata bolscevica”, nonché il bisogno di ristabilire l’ordine gerarchico dell’organizzazione economico-produttiva scosso dalle lotte proletarie. Nell’aprile 1921 il movimento elesse oltre trenta parlamentari, tra i quali Mussolini, in liste comuni con i giolittiani, e nel novembre successivo l’ingrossarsi delle sue file consigliò la costituzione del PNF Partito nazionale fascista. Gli agrari e ampi settori della borghesia industriale sostennero e incoraggiarono l’opera di smantellamento sistematico delle roccaforti del potere proletario (giornali, sezioni di partito, cooperative, sindacati, ecc.) attuato dai fascisti con violenza, mentre alcuni settori dell’apparato statale (magistrati, prefetti, responsabili della sicurezza ecc.) garantirono agli squadristi, quando non il sostegno, l’impunità. In questa fase Mussolini, che appariva figura emergente in grado di raccogliere una massiccia forza d’urto per dare la scalata al potere, seppe abilmente alternare intimidazioni brutali e rassicurazioni di legalità, fino alla prova di forza che si ebbe con la mobilitazione fascista del 22 ottobre 1922 (la “marcia su Roma”) a seguito della quale cadde il governo Facta e il re lo incaricò di formare il governo. Mussolini sarebbe rimasto ininterrottamente a capo del governo dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943 (dal 24 dicembre 1925 con il titolo di primo ministro e segretario di stato), tenendo altresì per vari periodi i ministeri degli Esteri (1922-29, 1932-36, 1943), degli Interni (1922-24, 1926-43), delle Colonie, della Marina, delle Corporazioni e altri; egli fu cioè il supremo esponente dell’Italia fascista. Gli anni tra il 1922 e il 1924 videro un governo di coalizione cui partecipavano liberali, nazionalisti, popolari, governo che perseguì una politica genericamente di destra e si servì di norma di mezzi legali per la repressione dell’antifascismo. Ma il problema di Mussolini era conciliare l’anima “rivoluzionaria” del movimento fascista, che largamente gli sfuggiva e rischiava di coalizzare le opposizioni, con la necessità di consolidare i nuovi equilibri politici governativi. Con la costituzione del Gran Consiglio del fascismo (dic. 1922), presieduto dallo stesso Mussolini, e l’istituzione della Milizia volontaria per la difesa dello stato (genn. 1923), che legalizzava e imbrigliava lo squadrismo, Mussolini tentò una prima soluzione del problematico rapporto movimento-governo, apprestandosi a divenire garante di ciascuno nei confronti dell’altro, mentre la confluenza dei nazionalisti nel PNF e la legge elettorale Acerbo (luglio 1923), che assicurava un forte premio di maggioranza alla lista vincitrice, ne rafforzavano la posizione. A interrompere il consolidarsi del connubio tra fascismo e stato intervenne la crisi dell’Aventino, a seguito dell’assassinio da parte di alcuni sicari fascisti del leader socialista G. Matteotti (giugno 1924), fase che poteva segnare la fine del governo di coalizione ma che si concluse con il discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925, nel quale era rivendicata la continuità tra il movimento fascista e il governo in carica. Sconfitta con il concorso della Corona l’opposizione aventiniana, e con essa l’antifascismo tutto, per Mussolini si apriva la strada dell’edificazione del regime, cui il governo (ormai completamente composto da fascisti) diede mano varando una serie di leggi che tra il 1925 e il 1929 modificarono sostanzialmente l’assetto costituzionale. Il partito unico, la soppressione delle libertà di associazione e di stampa, l’istituzione del Tribunale speciale, il rafforzamento dell’esecutivo e dei poteri del capo del governo, l’attribuzione di funzioni costituzionali al Gran Consiglio del fascismo e, in breve, l’insieme della legislazione di questi anni, abolivano la divisione costituzionale dei poteri e posero Mussolini nella posizione di un esercizio del potere sostanzialmente illimitato, regolatore unico dell’intero ingranaggio amministrativo, istituzionale ed economico della nazione; a questa funzione si accompagnava una gigantesca macchina propagandistica esaltatrice delle virtù nazionali e guerriere del “duce” – figura carismatica destinata a riprodursi in altri contesti politici totalitari, attorno a cui si consolidò il consenso -, mentre si diffondevano come cultura di massa i simboli, il linguaggio, i riti collettivi, gli istituti del regime. Il regime mussoliniano in senso stretto durò dunque dalla fine degli anni Venti al 1943, perfezionando col tempo l’integrazione totalitaria di partito, società e stato; pertanto, specie in questo periodo, la vita e le scelte di Mussolini costituiscono gran parte della politica interna ed estera dell’Italia. Se l’apice del prestigio, non solo all’interno, venne toccato alla metà degli anni Trenta, è nello stesso periodo che inizia a delinearsi un quadro internazionale che, con la guerra, avrebbe portato la rovina di Mussolini e del fascismo, oltre la sconfitta dell’Italia. La politica estera del fascismo fu sostanzialmente prudente e in linea con la politica estera liberale fino all’ascesa al potere di A. Hitler e alla revisione dell’equilibrio politico europeo che questa comportava. Dopo aver preso posizione contro la minaccia di un’annessione dell’Austria da parte della Germania e aver promosso il convegno di Stresa con Francia e Gran Bretagna (1935) che parve creare un fronte antitedesco, Mussolini, per prevalenti motivi di prestigio interno e internazionale, volle la conquista dell’Etiopia, che gli confermò il consenso degli italiani ma depauperò l’economia nazionale, costretta a provvedere all’Impero, e provocò l’urto con la Gran Bretagna e la Società delle Nazioni. Inoltre i legami di solidarietà con la Germania, nella tensione internazionale causata anche dall’intervento nella guerra civile spagnola, trasformatisi presto in una rigida complementarità, portarono Mussolini all’accettazione (1938) dell’Anschluss e alla persecuzione degli Ebrei. Alla vigilia del conflitto mondiale, Mussolini parve svolgere a Monaco (1938) un ruolo di efficace moderatore; si trattò in effetti di una dilazione dell’attacco a fondo che Hitler stava per sferrare. Scoppiata la guerra, che a lungo aveva minacciato, giungendovi peraltro militarmente impreparato, Mussolini, dopo un periodo di incertezza dissimulata dalla formula della “non belligeranza”, decise l’intervento ritenendo imminente la vittoria tedesca. Gli insuccessi della sua opera di comandante supremo – carica che nel maggio del 1940 gli era stata ceduta dal re -, la constatazione che egli aveva perso ogni controllo della situazione, che andava precipitando dopo le spedizioni in Grecia e in Russia e l’occupazione alleata di parte del territorio italiano, offrirono la possibilità al Gran Consiglio del fascismo di approvare (24 luglio 1943) un ordine del giorno, presentato da D. Grandi, contro di lui, cui seguì da parte del re l’immediata revoca del mandato governativo. Crollato il regime, Mussolini fu trasferito in stato di fermo prima a Ponza, poi alla Maddalena, quindi al Gran Sasso; di qui venne liberato dai tedeschi con un colpo di mano e portato in volo in Germania all’indomani dell’8 settembre. Tornò in Italia per raccogliere quel che restava dello sfacelo fascista nella Repubblica sociale italiana, nella quale esercitò le funzioni di capo dello Stato e capo del governo. Installato a Gargnano (sul Lago di Garda), seguì le vicende belliche apparendo raramente in pubblico. Dichiarò come obiettivo la riconciliazione degli italiani e la socializzazione, ma la crisi militare dell’Asse, gli scioperi operai del 1943-44 e il movimento di Resistenza ne evidenziarono la funzione di puntello dell’occupazione tedesca. Al crollo della “linea gotica” si trasferì a Milano (17 apr. 1945) e tentò di contrattare la propria incolumità con il Comitato di liberazione nazionale. In fuga verso Como, in divisa da soldato tedesco, fu arrestato dai partigiani e passato per le armi per ordine del CLN il 28 aprile 1945. Il suo cadavere (insieme a quelli di Claretta Petacci, la donna cui era legato dal 1936, e di altri gerarchi fucilati) fu esposto dai partigiani a Milano in piazzale Loreto, a simbolo della fine del fascismo.

PNFPartito Nazionale Fascista (P.N.F.) è stato un partito politico italiano, espressione del movimento fascista. Nato nel 1921 dalla trasformazione in partito del movimento Fasci italiani di combattimento, guidò la cosiddetta marcia su Roma che nell’autunno del 1922 portò Benito Mussolini a divenire presidente del Consiglio dei ministri.

Nel 1923 si fuse con l’Associazione Nazionalista Italiana e tra la metà e la fine degli anni 1920 diventò, prima de facto e poi de iure, il partito unico del Regno d’Italia fino alla caduta del regime fascista, avvenuta il 25 luglio del 1943.

L’organo ufficiale del partito era Il Popolo d’Italia, quotidiano fondato da Mussolini nel 1914. L’inno era Giovinezza, nella versione di Salvator Gotta del 1925, qualificato come Inno trionfale del Partito Nazionale Fascista. La legge 20 giugno 1952, n. 645 (detta «legge Scelba»), in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana, ne vieta la ricostituzione

Il PNF fu dunque fondato a Roma il 9 novembre 1921 per iniziativa di Benito Mussolini come evoluzione in partito del movimento dei Fasci Italiani di Combattimento – fondati, sempre da Mussolini, a Milano, in piazza San Sepolcro, il 23 marzo 1919. Come movimento giovanile si dotò nel 1921 dell’Avanguardia Giovanile Fascista. Rispetto ai Fasci, il PNF abbandonò, via via che si consolidava al potere, gli ideali socialisteggianti e repubblicani per virare decisamente verso la destra dello scacchiere politico italiano.

Conquista del potere

Dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, Mussolini, che era stato eletto parlamentare l’anno precedente insieme ad altri esponenti fascisti, fu incaricato dal re Vittorio Emanuele III di formare un nuovo governo sostenuto da una maggioranza composta anche dal Partito Popolare Italiano e da altri gruppi di estrazione liberale. Il 15 dicembre 1922 fu costituito il Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del Partito Nazionale Fascista, che tenne la sua prima seduta il 12 gennaio 1923.

Regime

Alle elezioni politiche dell’aprile 1924, il PNF si presentò con la Lista Nazionale, in cui erano inseriti diversi esponenti della destra liberale. Ci furono violenze squadriste e fu impiegata in alcune regioni una “lista civetta”, la Lista Nazionale bis, volta a drenare ulteriori voti. Il “Listone” ottenne una netta maggioranza con il 65,2% dei voti e 376 deputati (di cui 275 del PNF). Tali risultati furono però duramente contestati dalle opposizioni, che denunciarono numerose irregolarità. In tale quadro, il deputato Giacomo Matteotti, dopo aver denunciato brogli in parlamento, venne ucciso da estremisti fascisti. La vicenda ebbe seguito il 3 gennaio 1925, quando Mussolini, con un discorso alla Camera dei deputati, dichiarò provocatoriamente di assumersi la responsabilità storica di quanto accaduto, promettendo di chiarire la situazione nei giorni immediatamente seguenti. In sede giudiziaria, sia all’epoca dei fatti, sia nel secondo dopoguerra, non fu mai provato alcun coinvolgimento diretto del Duce o di altri gerarchi nell’organizzazione del delitto: tesi sostenuta anche da alcuni storici e dal giornalista Indro Montanelli, per i quali le responsabilità di Mussolini furono solo di natura morale. La crisi seguita all’omicidio di Matteotti, che era parsa far vacillare la presa di Mussolini e del fascismo, fu invece abilmente sfruttata dal duce per avviare la dittatura.

Dopo l’emanazione nel 1926 delle cosiddette leggi fascistissime il PNF fu l’unico partito ammesso in Italia fino al 25 luglio 1943, e dotandosi di un proprio statuto. Il Gran Consiglio del Fascismo divenne organo costituzionale del Regno: “organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell’ottobre 1922”. Il Gran Consiglio deliberava sulla lista dei deputati da sottoporre al corpo elettorale (poi sostituiti dai consiglieri nazionali della Camera dei Fasci e delle Corporazioni); sugli statuti, gli ordinamenti e le direttive politiche del Partito Nazionale Fascista; sulla nomina e la revoca del Segretario, dei Vicesegretari, del Segretario amministrativo e dei membri del Direttorio nazionale del Partito Nazionale Fascista. Le iscrizioni al Partito aumentarono a dismisura quando, il 29 marzo 1928, si decise che gli iscritti al PNF avrebbero avuto la precedenza nelle liste di collocamento (più antica era l’affiliazione, più si “scalavano” le graduatorie).

Quasi due anni esatti dopo, il 28 marzo 1930, si decretò che per poter svolgere gli incarichi scolastici di alto livello (presidi e rettori) bisognava essere tesserati almeno da cinque anni. Il 3 marzo del 1931 le iscrizioni furono sospese per circa un anno; questo dato fa intuire che molte furono le adesioni al Partito Fascista dettate esclusivamente da interesse: contro di esse si mosse il segretario Giovanni Giuriati, attivista anti-corruzione che, forse proprio per questa spinta “moralizzatrice”, venne destituito dal Duce dopo pochi mesi. Un ruolo educativo fu proprio dall’Istituto Fascista di Cultura, attualmente Università Popolare degli studi di Milano, che fu convertita da Università Popolare di Milano a Scuola Fascista, che durante tutto il periodo diede formazione e cultura fascista.

Nel 1930 furono creati i Fasci giovanili di combattimento. Gli anni Trenta furono caratterizzati dalla segreteria di Achille Starace, “fedelissimo” di Mussolini e uno dei pochi gerarchi fascisti provenienti dal sud Italia, che lanciò una campagna di fascistizzazione del paese fatta di cerimonie oceaniche e creazione di organizzazioni volte a inquadrare il paese e il cittadino in ogni sua manifestazione (sia pubblica sia privata). Al fine di irregimentare anche i movimenti giovanili Starace portò sotto il controllo diretto del PNF sia l’Opera Nazionale Balilla (ONB) sia i Fasci Giovanili che furono sciolti e fatti confluire nella nuova Gioventù Italiana del Littorio (GIL).

Il 27 maggio 1933 l’iscrizione al PNF è dichiarata requisito fondamentale per il concorso a pubblici uffici; il 9 marzo 1937 diventa obbligatoria se si vuole accedere a un qualunque incarico pubblico e dal 3 giugno 1938 (Regio decreto n. 827) non si può essere assunti nel personale salariato statale né si possono avere promozioni all’interno di questo personale se non si ha la tanto conclamata tessera: è chiaro quindi che gli iscritti si contino a milioni ma che tra questi i “tiepidi” e i “freddi” verso il regime siano moltissimi. Nel 1939 Ettore Muti avvicenda Starace alla guida del partito e tale fatto testimonia l’aumento dell’influenza di Galeazzo Ciano.

A partire dal 1937 il segretario nazionale del PNF assurse a rango di ministro di Stato. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale Mussolini tenta di militarizzare il partito ordinando il giorno di Capodanno del 1941 la mobilitazione generale di tutti i quadri del PNF. Nel periodo in cui le operazioni belliche volgono verso il peggio, in molti perdono la fiducia verso il regime fascista: anche nell’organo politico principale monta una critica, seppur latente e oscura, a cui il Duce tenta di dare una spallata nominando il ventisettenne Aldo Vidussoni segretario del PNF (26 dicembre 1941). La mossa, dettata dal fatto che i giovani sono rimasti i più accesi sostenitori del governo, si rivela catastrofica e il 19 aprile 1943 il giovane friulano viene sostituito da Carlo Scorza.

Scioglimento del PNF

Il 27 luglio 1943, in seguito alla votazione dell’ordine del giorno Grandi (25 luglio), Mussolini venne arrestato dai Reali Carabinieri, decretando di fatto la fine del regime fascista. Lo scioglimento del PNF da parte del nuovo governo di Pietro Badoglio avvenne il 2 agosto 1943 con il regio decreto n.704, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del Regno il 5 agosto successivo.

Liberato dai tedeschi il 10 settembre, Mussolini costituì il 13 settembre il nuovo Partito Fascista Repubblicano (PFR) e costituì la Repubblica Sociale Italiana (RSI), nella parte d’Italia occupata dai tedeschi. Segretario del PFR fu nominato il 15 settembre Alessandro Pavolini. A Milano era già stato ricostituito il 13 settembre da Aldo Resega, che ne fu anche il primo commissario federale.

BRIGATE NERE

Le Brigate nere furono un corpo paramilitare fascista della Repubblica Sociale Italiana, operativo in Italia settentrionale dagli inizi di luglio del 1944 fino al termine della seconda guerra mondiale, con compiti antiguerriglia e di supporto alle forze di polizia. La formazione militare fu istituita il 30 giugno 1944 col decreto legislativo 446-XXII con il nome di Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle Camicie Nere ed era costituita da iscritti al Partito Fascista Repubblicano arruolatisi su base volontaria.

Furono costituite 41 Brigate (una per provincia), intitolate ciascuna a un caduto del fascismo repubblicano. A esse si affiancavano sette Brigate autonome e otto Brigate mobili, di cui una alpina. Le federazioni provinciali del partito furono convertite in comandi di brigata, diretti dai rispettivi segretari federali, mentre la segreteria nazionale del PFR assumeva le funzioni di Ufficio di Stato Maggiore del Corpo. Comandante generale del Corpo fu, sin dall’inizio, il segretario del partito fascista Alessandro Pavolini.

Il PFR cessò la sua esistenza con la morte di Mussolini e con la fine della RSI, il 28 aprile del 1945

Fonti informazioni Wikipedia