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Marcia su Roma
La marcia su Roma fu una manifestazione armata organizzata dal Partito Nazionale Fascista , guidato da Benito Mussolini, il cui successo ebbe come conseguenza l’ascesa al potere del partito stesso in Italia. Il 28 ottobre 1922, circa 25.000 camicie nere si diressero sulla capitale rivendicando dal sovrano la guida politica del Regno d’Italia e minacciando, in caso contrario, la presa del potere con la violenza. La manifestazione si concluse con successo quando, il 30 ottobre, il re Vittorio Emanuele III cedette alle pressioni dei fascisti e decise di incaricare Mussolini di formare un nuovo governo. Vengono ricompresi nella medesima locuzione anche altri eventi collegati verificatisi, fra il 27 e il 30 ottobre, in tutto il territorio nazionale.
La marcia su Roma venne celebrata negli anni successivi come il prologo della nominativa “rivoluzione fascista” e il suo anniversario divenne il punto di riferimento per il conto degli anni secondo l’era fascista.
La Marcia su Roma si inserì in un contesto di grave crisi e messa in discussione dello Stato liberale, le cui istituzioni erano viste come non più idonee a garantire l’ordine interno principalmente da fascisti, socialisti e comunisti. La situazione di crisi cominciò poco prima del termine della Grande Guerra, quando i rigori cui il popolo venne sottoposto ai fini del successo bellico avevano incominciato a destare un forte malcontento.
Finita la guerra, questo esplose in forme violente, caratterizzate dall’affiancamento dell’azione armata a quella politica da parte di partiti e gruppi politici o dalla loro trasformazione in vere e proprie forme paramilitari, creando disordini che sfociarono nel biennio rosso. Nel novembre del 1921 i Fasci Italiani di Combattimento si trasformarono nel Partito Nazionale Fascista (PNF), combattendo al proprio interno fra spinte volte a scelte rivoluzionarie e istanze di crescita costituzionale. Mussolini optò per una “via parlamentare”, tenendo a freno le squadre d’azione e incominciando la ricerca del consenso popolare.
Approfittò perciò del coinvolgimento di Gabriele D’Annunzio nell’occupazione del Comune di Milano (3 agosto 1922), per sottintenderne la sua adesione al partito. A partire dalla primavera del 1922, e poi soprattutto dal luglio quando avvennero gravi crisi e rapide alternanze di governo, la politica parlamentare seguì le manovre dei popolari di Don Sturzo per un governo guidato da Vittorio Emanuele Orlando in coalizione con il Partito Socialista Italiano.
Del resto, lo stesso Giovanni Giolitti, in un’intervista al Corriere della Sera, aveva sostenuto l’opportunità di una trasformazione in senso costituzionale del movimento. Nel frattempo, la propaganda affievoliva il carattere repubblicano del fascismo, onde non porsi troppo presto in aperto contrasto con la Corona e le Forze Armate, che Mussolini e i fascisti ritenevano si sarebbero attenute al giuramento di fedeltà prestato al re, appoggiandoli.
Mussolini incominciò una serie di incontri e contatti con gli esponenti politici più importanti, per verificare possibili alleanze e, contemporaneamente, vi furono timidi sondaggi e più aperti abboccamenti anche con gli esponenti del mondo imprenditoriale ed economico. Da questi ultimi rapporti, sempre nell’agosto, nacque uno studio di Ottavio Corgini e Massimo Rocca, che sarebbe stato pressoché direttamente mutuato in un nuovo programma economico fascista.
Il futuro Duce si risolse a considerare Giolitti probabilmente il più pericoloso dei suoi avversari e perciò dedicò le sue attenzioni a Luigi Facta, “figlio” politico di Giolitti e assai devoto verso il suo mentore, che intendeva sganciare dallo statista per coinvolgerlo in ruoli governativi di massimo prestigio politico insieme con D’Annunzio, nel qual caso di Facta avrebbe potuto essere il merito di una eventuale “normalizzazione” dei fascisti; altra ipotesi è che fosse stato Facta, nei contatti avuti, a coltivare questa prospettiva, sfumata l’11 ottobre a Gardone in un incontro fra Mussolini e D’Annunzio nel quale il PNF sottoscrisse accordi con una sorta di sindacato dei marittimi (Federazione del Mare, guidata da Giuseppe Giulietti) che il poeta aveva preso sotto tutela, e questo accordo avrebbe legato anche i due esponenti.
Facta aveva in realtà contattato direttamente D’Annunzio e insieme avevano pensato a una marcia su Roma di ex combattenti guidata proprio dal Vate e da tenersi il 4 novembre al fine di prevenire e rendere eventualmente inefficace quella fascista, di cui già si parlava. Mussolini sacrificò il sindacato fascista dei marittimi – che disciolse – in favore del sodalizio preferito dal poeta, rinunciò a qualche prebenda per il partito da parte della corporazione degli armatori, e l’accordo Facta-D’Annunzio restò senza seguito.
Neutralizzato D’Annunzio, Mussolini fu ripreso dall’ansia di paralizzare anche Giolitti e i preparativi per un’azione spettacolare ebbero inizio. Se su un versante più nitidamente politico si cercava di far vacillare il governo Facta, indebolendolo così da poterne costituire sempre più lucidamente una valida e “forte” alternativa istituzionale, sul piano “operativo” la marcia fu preparata in gran segreto fin nei minimi dettagli. Del proposito circolavano già molte voci che si rincorrevano da e per ogni direzione: d’altra parte, lo statista di Dronero era ben informato della situazione grazie ai suoi contatti personali ed era stato avvicinato dal ministro delle finanze Giovanni Battista Bertone, che anche su incarico di Facta voleva chiedere a Giolitti di tornare a Roma e formare un nuovo ministero che fronteggiasse i fascisti sul campo.
Giolitti, nell’incontro con Bertone all’Hotel Bologne a Torino il 23 ottobre, anche a proposito di un eventuale intervento della polizia sui fascisti durante la manifestazione di Napoli, rispose “Ma no, ma no. Vediamo cosa succede, poi se ne parla”. La marcia su Roma ebbe un prodromo: il 2 agosto del 1922 i fascisti occupano militarmente Ancona; essi volevano saggiare la reazione del governo e del re, in vista di un successivo tentativo su Roma. Volevano inoltre rendersi conto anche della posizione che avrebbe preso l’esercito di fronte a un’occupazione armata di una città.
Era stata scelta Ancona perché la città era nota per la sua avversione alle idee autoritarie; la fama di città ribelle era stata conquistata dalla città in seguito alla Settimana rossa del 1914 e alla Rivolta dei Bersaglieri del 1920; se il tentativo di occupazione fosse riuscito in una città così, nuove imprese sarebbero state considerate più facili. L’occupazione avvenne senza ostacoli: il capoluogo marchigiano, che due anni prima aveva preso le armi contro il governo, cadde in mano ai fascisti quasi senza resistenza, lasciando tutti sorpresi; il governo e Vittorio Emanuele III tacquero. Perfino in una città calda come Ancona l’avvento del fascismo era sentito come ineluttabile e la resistenza era considerata inutile.
Il 14 ottobre, Mussolini scrisse su un giornale un articolo intitolato Esercito e Nazione, nel quale attaccava Pietro Badoglio per una frase che gli era stata attribuita (l’interessato smentì all’epoca, ma l’avrebbe invece confermata dopo la caduta del regime fascista) e che suonava più o meno come «Al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà». Questo scontro sarebbe poi pesato non poco nei sempre difficili rapporti fra l’ex direttore dell’Avanti! e il generale. Nel frattempo l’entusiasta e fedelissimo Vilfredo Pareto gli telegrafava sollecitando di accelerare i tempi, «Ora, o mai più».
Il 19 ottobre 1922, Domizio Torrigiani, al vertice del Grande Oriente d’Italia, diffonde una circolare nella quale sostiene l’ascesa del fascismo al potere.Ma già alcune settimane dopo, l’Ordine avrebbe invitato i “fratelli” alla difesa dei fondamentali principi della democrazia e a prepararsi all’opposizione.
I preparativi della Marcia su Roma
24 ottobre 1922, adunata delle camicie nere di Napoli, Mussolini sul palco delle autorità
Quattro giorni prima della marcia, il 24 ottobre, a Napoli si tenne una grande adunata del Partito Nazionale Fascista, raduno di camicie nere che doveva servire da prova generale. In quell’occasione, Mussolini proclamò pubblicamente: “O ci daranno il governo o lo prenderemo calando a Roma”. Durante la sfilata, in via Museo, un mazzo di fiori con un sasso nascosto venne lanciato dalla folla che in massima parte acclamava e lanciava fiori verso il corteo ferendo un fascista; in risposta, un altro fascista dapprima colpì con un nerbo di bue tra la folla a casaccio e poi sparò una rivoltellata che ferì con esiti mortali la ottantenne Carolina Santini, affacciata a un balcone.
Quel giorno Mussolini annunciò la nomina nominativa dei quadrumviri che avrebbero condotto la marcia su Roma : Italo Balbo (uno dei ras più famosi), Emilio De Bono (futuro comandante della Milizia), Cesare Maria De Vecchi (un generale non sgradito al Quirinale) e Michele Bianchi (segretario del partito e fedelissimo di Mussolini). Il 26 di quel mese il presidente del consiglio rispose a Mussolini (che aveva radunato a Napoli decine di migliaia di camicie nere e minacciava apertamente di marciare su Roma per occuparne militarmente le Istituzioni) in modo del tutto privo di senso: è in queste circostanze che, di fronte a chi gli prospettava il precipitare della situazione, Luigi Facta pronunciò la celebre frase con la quale passerà alla Storia: “Nutro fiducia!”.
L’adunata di Napoli, al campo sportivo dell’Arenaccia, fu organizzata da Aurelio Padovani, uno dei cinque comandanti di zona che vollero la marcia su Roma, con rilascio di tessera nominativa,: Padovani comandò la sfilata per le vie cittadine e, al teatro San Carlo, fu lui a presentare Mussolini ai cittadini napoletani. Mussolini tenne due discorsi, uno al teatro San Carlo, diretto al ceto borghese, e uno in piazza Plebiscito ai suoi uomini. Il capo dei fascisti si espresse abilmente evitando di far trasparire segnali di allarme, ma al contempo rassodando i crescenti consensi sia della popolazione sia dei simpatizzanti. La stessa sera, all’Hotel Vesuvio, si riunì il Consiglio nazionale del partito che stabilì le direttive di dettaglio per la marcia. La mattina dopo Bianchi avrebbe lanciato ai suoi uomini il segnale convenuto: «Insomma, fascisti, a Napoli piove, che ci state a fare?» mentre Mussolini sarebbe prudentemente andato ad attendere a Milano gli sviluppi successivi.
Il comportamento tutto sommato ordinato dei fascisti , pronti per la marcia su Roma , durante la manifestazione, che si concluse sotto il quartier generale di corpo d’armata dell’Esercito con la richiesta di esposizione della bandiera, fece stilare al prefetto Angelo Pesce un telegramma con nominativa sintetizzante gli eventi, che pervenne a Roma alle 19:30 del 24, in cui si diceva tra l’altro:
«Manifestazione fascista si è svolta nell’ordine. Nulla da segnalare. Onorevole Mussolini ha pronunciato breve discorso … se il governo non sarà dato ai fascisti il fascismo lo prenderà con la forza. (…) invitati [i fascisti] a sciogliersi portandosi prima sotto palazzo Corpo armata per dimostrazione simpatia all’esercito (…). Le squadre aderendo a tale invito hanno fatto una calorosa dimostrazione all’esercito (…) e ora vanno allontanandosi da piazza Plebiscito dirigendosi alcuni per stazione ferroviaria per partire, altri nelle varie località di concentramento loro assegnate.» |
Era quindi il preambolo al passo successivo. Il quadrumvirato avrebbe dichiarato l’assunzione di pieni poteri da Perugia, dove si era installato presso l’Hotel Brufani, e avrebbe assunto i poteri effettivi nella notte tra il 26 e il 27 ottobre. Dino Grandi, di rientro da una missione a Ginevra, era stato nominato capo di stato maggiore del quadrumvirato. Truppe fasciste avrebbero poi dovuto occupare uffici pubblici, stazioni, centrali telegrafiche e telefoniche.
Le squadre sarebbero confluite a Foligno, Tivoli, Monterotondo e Santa Marinella per poi entrare nella capitale. Si raccolsero – si stima – circa 25-30.000 fascisti, a fronte dei 28.400 soldati a difesa della capitale. Facta era rassicurato dagli avvenimenti e dai discorsi tenuti a Napoli, nonché dal fatto che il raduno si era chiuso senza scontri, violenze e altre degenerazioni. Il 26, però, Antonio Salandra (che si era incontrato con Mussolini quando questi andava a Napoli il 23, e che manteneva contatti con De Vecchi, Ciano e Grandi) gli riferì che la marcia su Roma stava per partire e che se ne volevano le dimissioni.
Facta in realtà non gli credette; la contrapposizione politica fra Facta e Salandra non rendeva l’ambasciata del secondo così influente sul primo, che si limitò a indire un consiglio dei ministri nel quale cercò di riprendersi le deleghe affidate ai ministri, onde poter disporre di “valori” negoziabili, con Mussolini o con altri. Del resto, in seno al governo, bruciava la questione della posizione di Vincenzo Riccio, fedelissimo di Salandra, che si trovava in condizione di provocare la crisi di governo. Assenti Giovanni Amendola e Paolino Taddei, gli altri ministri accettarono di presentare a Facta le dimissioni e acconsentirono al loro eventuale avvicendamento con nuovi ministri fascisti.
Il 27 ottobre
Il 27 ottobre Bianchi e De Vecchi vennero a contrasto e il primo mandò addirittura una lettera a Mussolini in cui definiva l’altro “disertore”: la “colpa” del De Vecchi sarebbe consistita nel prosieguo – a fianco di Grandi – dei negoziati politici con Salandra, che avrebbe ambito a un incontro diretto col Capo del Fascismo che ripetutamente chiese invano.
Intanto a Cremona, a Pisa e a Firenze erano già in azione gli squadristi, che prendevano possesso non pacifico di alcuni edifici pubblici. Alle prime notizie Facta telegrafò al re Vittorio Emanuele III a San Rossore invitandolo a rientrare, cosa che il sovrano fece nella serata; andandolo a ricevere alla stazione, il Capo del Governo gli suggerì di applicare lo stato d’assedio, ma il sovrano non accettò (riferì Marcello Soleri) rifiutandosi di deliberare, temendo che molti militari, alcuni dei quali dalla parte di Mussolini, non avrebbero eseguito gli ordini.
La notte tra il 27 e il 28 il Presidente del Consiglio fu svegliato per essere informato che le colonne fasciste erano partite verso Roma, sui treni che avevano requisiti, mentre il re si consultava con i maggiori esponenti del Regio Esercito e della Regia Marina, tra i quali Diaz, Thaon di Revel, Giraldi e Bencivenga, per fare il punto della situazione. Il re chiese ai suoi generali se le forze armate sarebbero state fedeli alla monarchia in caso di stato d’assedio e quelli, per voce di Diaz, risposero che “l’esercito avrebbe certamente fatto il suo dovere, ma sarebbe stato bene non metterlo alla prova”.
Il ministro della Guerra Marcello Soleri, che si era fermato a dormire nei locali del proprio ministero, prontamente diede mandato al sottosegretario Aldo Rossini e al deputato Giuseppe Bevionedi provvedere alla stesura di un manifesto auspicante «disarmo di spiriti», «disarmo di azioni» e contenente un chiaro appello a troncare, «senza indugio, una esasperazione produttrice soltanto di dolori e di rovine»; inoltre il detto documento doveva chiarire che il Governo intendeva «difendere lo Stato a qualunque costo e con qualunque mezzo e contro chiunque attentasse alle sue leggi», assumendo, se necessario, «ogni responsabilità per la inflessibile tutela della sicurezza e dei diritti dello Stato». Con questo manifesto, alle due e mezzo circa del mattino Facta partì per Villa Savoia, ove si trovava il re, il quale, esaminatolo, si disse d’accordo.
Il documento, pur molto fermo, non conteneva la proclamazione dello stato d’assedio, anche se ne prospettava implicitamente l’eventualità. Il sovrano, dunque, dando il proprio consenso a tale manifesto non ritenne di essersi impegnato – come Facta e Soleri invece pensarono – a dar corso allo stato d’assedio. Alle 6 del mattino del giorno 28, si riunì al Viminale (allora sede della Presidenza del Consiglio) il consiglio dei ministri che decise di proclamare lo stato di assedio: il ministro dell’Interno Taddei stilò un proclama sulla falsariga di quello che Luigi Pelloux aveva stilato nel 1898 e il suo capo di Gabinetto Efrem Ferraris lo fece dare immediatamente alle stampe, inviandolo a tutte le prefetture senza attendere, «stante l’urgenza», che il re firmasse il relativo decreto.
Verso le 8 e mezzo, Facta si recò al Quirinale per la ratifica del proclama da parte del re ma, con sorpresa del primo ministro, il sovrano dichiarò: “Caro Facta, sono cambiate molte cose da stanotte”. Facta ricordò al re che “tutti i ministri sono stati d’accordo nel diramare il manifesto…” (dello stato d’assedio per Roma ,che precedeva la marcia , manifesto a firma nominativa dei ministri, ), ma il re rispose “Non tutti, non tutti!” e “D’altronde avete fatto male! Il diritto costituzionale prescrive che decisioni del genere non hanno nessun valore senza la firma del sovrano: lei lo sapeva benissimo, Facta!”; aggiungendo che non era certo della capacità di resistenza degli 8 000 militari presenti a Roma contro i “100.000 fascisti” in arrivo e che “in simili condizioni far scoppiare una guerra civile è da sanguinari e da scemi: io credo di non essere né una cosa né l’altra, caro Facta”. Successivamente disse “Io non firmo”, e chiuse a chiave il decreto non firmato in un cassetto. Facta rispose: «Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca la pena.»
Dopo di che si dimise (i dettagli sul colloquio furono narrati nel dopoguerra dalla figlia di Facta)
Alle 9 e mezzo Facta tornò al Viminale per annullare lo stato d’assedio e per chiamare il vecchio Giolitti in suo aiuto, ma questi non sarebbe potuto arrivare a soccorrerlo a causa delle linee ferroviarie interrotte dallo stesso Facta a due chilometri dalla capitale. Alle 11 e mezzo Facta formalizzò le sue dimissioni e il re procedette come d’ordinario con le consultazioni.
Il generale Emanuele Pugliese, comandante la Divisione di Roma, autore di un piano di difesa nominativa pre Marcia su Roma , il 28 ottobre 1922 alle 10:10 fece occupare la Casa del Fascio di via Avignonesi e fece bloccare treni che trasportavano 7 000 fascisti verso Roma.
Mussolini intanto restava a Milano, dove veniva costantemente informato sulla situazione romana; i dettagli dal Viminale gli venivano da Vincenzo Riccio che, tramite Salandra li faceva arrivare ai notabili fascisti tra i quali si era aggiunto Luigi Federzoni. Quest’ultimo parlò a telefono sia con Mussolini sia con il quadrumivirato di stanza a Perugia e, in seguito, si recò a colloquio da Vittorio Emanuele, cercando di agire da mediatore. Mussolini, dal canto suo, sapeva che De Vecchi e Grandi cercavano qualche accordo non coerente con il piano generale, e anche se più tardi li avrebbe accusati d’aver tradito la rivoluzione (nel 1944 al processo di Verona), al momento non li sconfessò pensando che la trattativa avrebbe potuto costituire una buona possibilità di ripiego nel caso in cui le sue squadre si fossero trovate costrette a smobilitare per l’intervento dell’esercito. Mussolini infatti sapeva bene che i suoi uomini erano sì una minaccia, ma non credeva alla loro forza militare. Una voce circolata successivamente asseriva che Facta avrebbe in realtà disposto per lo stato d’assedio nella serata del 27, ma che il re avrebbe respinto la proposta: la voce era stata diffusa da Federzoni, che diceva di aver chiamato al telefono egli stesso Mussolini, dal Ministero dell’interno, e lasciava supporre che il sovrano l’avesse voluto mettere a parte degli accadimenti romani.
Il 28 ottobre
Lo stato maggiore fascista a Roma
La mattina del 28, a Milano, Mussolini riceveva nella sede del Popolo d’Italia una delegazione di industriali, fra i quali Camillo Olivetti, che gli chiesero urgentemente di trovare un accordo con Salandra. Nello stesso momento, nella Capitale, quest’ultimo proponeva al re di dare l’incarico di formare il governo a Vittorio Emanuele Orlando, ma De Vecchi informò il sovrano che l’unica persona con cui Mussolini avrebbe potuto raggiungere un’intesa sarebbe stato lo stesso Salandra.
A Mussolini fu quindi proposto di governare a fianco di Salandra, ma egli rifiutò. Qualche ora dopo, forse anche tentando una forzatura per convincere il capo dei fascisti, Il Giornale d’Italia diffuse una edizione straordinaria in cui dava per raggiunto un accordo e per affidato un incarico a Salandra e Mussolini, il quale dopo aver resistito a pressioni di ogni provenienza, compresa una accorata telefonata del generale Arturo Cittadini (su espresso mandato del re), precisò telefonicamente a Grandi che ancora insisteva: «Non ho fatto quello che ho fatto per provocare la risurrezione di don Antonio Salandra».
La mattina seguente, dopo che le bozze dell’articolo scritto da Mussolini durante la notte erano state diffuse, Salandra vi poté leggere che non c’era niente da fare e, dopo un giro di telefonate di ultima conferma, decise di rimettere l’incarico. De Vecchi fu incaricato da Vittorio Emanuele di informare Mussolini che gli avrebbe conferito l’incarico. Il futuro dittatore rispose: «Va bene, va bene, ma lo voglio nero su bianco. Appena riceverò il telegramma di Cittadini partirò». Poche ore dopo gli giunse un telegramma del generale Cittadini, a firma nominativa, i cui contenuti preludevano alla Marcia su Roma :
«SUA MAESTÀ IL RE MI INCARICA DI PREGARLA DI RECARSI A ROMA DESIDERANDO CONFERIRE CON LEI OSSEQUI GENERALE CITTADINI |
L’esito
Benito Mussolini partito da Milano e giunto a Roma il 30 ottobre 1922, prima di diramare nominativa smobilitazione e la consegna delle armi, sfila il 31 ottobre in testa alle squadre armate fasciste assieme ai quattro comandanti delle colonne della Marcia su Roma (i quadrunviri: da sinistra Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo) . Il corteo, di circa 50.000 uomini, si reca all’Altare della Patria e al Quirinale a omaggiare il Re, Vittorio Emanuele III di Savoia.
Le camicie nere sfilano il 31 ottobre 1922 davanti al Quirinale, all’epoca residenza reale
Il Re Vittorio Emanuele III incontra ufficialmente il presidente del consiglio Benito Mussolini il 4 novembre 1922
Mussolini partì da Milano in vagone letto con il direttissimo n.17 delle 20:30 del 29 ottobre alla volta di Roma, dove sarebbe giunto alle 11:30 del 30 ottobre; il convoglio patì un incredibile ritardo dovendo rallentare – e in qualche caso proprio fermarsi – in molte stazioni prese d’assalto da fascisti festanti che accorrevano a salutare il loro capo.
Il Duce parlò per circa un’ora col re, promettendogli di formare entro sera un nuovo governo con personalità non fasciste e con esponenti di aree politiche “popolari”. Alle 18 presentò il governo Mussolini, comprendente soltanto tre fascisti, Alberto De Stefani, Giovanni Giuriati e Aldo Oviglio, di orientamento moderato.
Le “Camicie Nere della rivoluzione” intanto erano accampate intorno alla Capitale e non attendevano che di entrarvi: furono autorizzate a entrarvi solo il giorno 30 e la raggiunsero alla meglio, su mezzi di fortuna. Ma erano più che raddoppiati: dai circa 30.000 della marcia, erano ora più di 70.000, cui si aggiunsero i simpatizzanti romani che erano già sul posto.
Ci furono scontri e incidenti; nel quartiere di San Lorenzo alcuni operai accolsero con colpi d’arma da fuoco la colonna guidata da Giuseppe Bottai e Ulisse Igliori, proveniente da Tivoli. All’alba del giorno dopo, oltre 500 fascisti guidati da Italo Balbo attaccarono di sorpresa il quartiere e lo devastarono. I morti fra gli abitanti furono tredici (tra questi, i responsabili dell’agguato), i feriti oltre duecento, alcuni dei quali, scaraventati giù dalle finestre delle abitazioni, riportarono lesioni permanenti. Agli scontri parteciparono attivamente anche i “Sempre pronti per la patria e per il re“, la milizia dell’Associazione nazionalista italiana, che in un primo momento erano restati in attesa degli eventi della marcia su Roma nominativa, ma, dopo il conferimento dell’incarico di formare il governo a Mussolini, si unirono alle camicie nere.
Informato dell’accaduto, il Presidente del Consiglio in pectore diede alle forze dell’ordine immediate disposizioni per la repressione di qualsiasi incidente. Il 31 ottobre 1922 le camicie nere sfilarono per più di sei ore dinanzi al re, poi Mussolini comandò che si incominciassero le operazioni di smobilitazione: l’ordine di rompere le righe venne infatti pubblicato sul quotidiano Il Popolo d’Italia dello stesso giorno.
L’Ordine di smobilitazione Il Partito Nazionale Fascista comunica: Fascisti di tutta Italia! Il nostro movimento è stato coronato dalla vittoria. Il Duce ha assunto i poteri politici dello Stato per l’Interno e per gli Esteri. Il nuovo Governo, mentre consacra il nostro trionfo col nome di coloro che ne furono gli artefici per terra e per mare, raccoglie a scopo di pacificazione nazionale, uomini anche di altre parti perché devoti alla causa della Nazione. Il Fascismo italiano è troppo intelligente per desiderare di stravincere. Fascisti Il Quadrumvirato supremo d’azione, rimettendo i suoi poteri alla Direzione del Partito, vi ringrazia per la magnifica prova di coraggio e di disciplina e vi saluta. Voi avete bene meritato dell’avvenire della Patria Smobilitate con lo stesso ordine perfetto col quale vi siete raccolti per il grande cimento destinato -lo crediamo certamente- ad aprire una nuova epoca nella storia italiana. Tornate alle consuete opere poiché l’Italia ha ora bisogno di lavorare tranquillamente per attingere le sue maggiori fortune. Nulla venga a turbare l’ordine potente della vittoria che abbiamo riportato in queste giornate di superba passione e di sovrana grandezza Viva l’Italia! Viva il Fascismo”.Il Quadrumvirato |