Italo Balbo (Quartesana, 6 giugno 1896 – Tobruch, 28 giugno 1940) è stato un politico, generale e aviatore italiano.
Iscritto al Partito Nazionale Fascista, fu uno dei quadrumviri della marcia su Roma, diventando in seguito comandante generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e sottosegretario all’economia nazionale. Nel 1929 assunse l’incarico di ministro della Regia Aeronautica, veste in cui promosse e guidò diverse crociere aeree come la crociera aerea transatlantica Italia-Brasile e la crociera aerea del Decennale. Considerato un potenziale rivale politico di Benito Mussolini a causa della grande popolarità raggiunta, Balbo fu nominato nel 1934 governatore della Libia.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale organizzò voli di guerra per catturare alcuni veicoli del Regno Unito, e proprio durante il ritorno da uno di questi voli, il 28 giugno 1940, fu abbattuto per errore dalla contraerea italiana sopra Tobruch.
Italo Balbo Alpino nella grande guerra
Il Tenente Italo Balbo, Comandante del Reparto Arditi del Battaglione Pieve di Cadore, 7º Reggimento Alpini, ritratto a Dosso Casina, di ritorno da una pattuglia (alla sua destra Pietro Tassotti)
Allo scoppio della prima guerra mondiale, nel maggio del 1915, Italo Balbo si arruolò volontario, ma non prese mai parte alle prime azioni sul fronte e già nel novembre di quell’anno ritornò a Ferrara. Nella città estense ripensò alla necessità di ottenere il titolo di studio che ancora non aveva conseguito prima dell’arruolamento volontario. Intanto la situazione stava mutando e le grandi perdite dei primi mesi del conflitto stavano costringendo i comandi dell’esercito italiano a rivedere i requisiti necessari per accedere alla carriera di ufficiale. Nell’autunno del 1916 si ripresentò così davanti alla stessa commissione esaminatrice che già lo aveva bocciato una volta, fu ammesso con tutte le materie sufficienti e ottenne la possibilità di concorrere alla nomina a sottotenente.
A questo punto si arruolò nuovamente nell’esercito e nell’aprile del 1917 venne mandato in Carnia e in seguito prestò servizio nel battaglione Alpini “Val Fella”. Promosso tenente, il 16 ottobre 1917 lasciò il battaglione perché destinato, su sua domanda, al Deposito Aeronautico di Torino per un corso di pilotaggio, la sua vera grande passione. Pochi giorni dopo, a causa dell’offensiva austro-tedesca, fu costretto a ritornare al fronte, assegnato al battaglione Alpini “Monte Antelao”. Nel 1918, al comando del reparto d’assalto del battaglione Alpini “Pieve di Cadore”, partecipò all’offensiva sul monte Grappa che liberò la città di Feltre. Nel corso dell’ultima fase della guerra si guadagnò una medaglia di bronzo e due d’argento al valor militare, raggiungendo il grado di capitano.
Dopo l’armistizio Balbo rimase cinque mesi con il suo battaglione come commissario prefettizio di Pinzano al Tagliamento (provincia di Udine).
Venticinquenne, Italo Balbo aderì al PNF. Essendo stato repubblicano, chiese al partito se potesse restarne ugualmente un iscritto, ma ricevuta una risposta negativa si accordò con i fascisti di Ferrara per uno stipendio mensile di 1.500 lire (pagato dai proprietari terrieri) e diventando segretario politico al posto di Gaggioli. Ottenne anche la promessa di un posto come ispettore di banca una volta conclusa la battaglia fascista. Il 13 febbraio 1921 quindi Balbo divenne segretario del Fascio di Ferrara ed uno degli esponenti di spicco, oltre che organizzatore e comandante dello squadrismo agrario, riuscendo ad avere ai suoi ordini tutte le squadre d’azione dell’Emilia-Romagna. In tal modo riuscì anche a mettere a frutto le sue esperienze di comando durante la prima guerra mondiale. In questa veste organizzò una squadra d’azione denominata “Celibano”. La sede era il Caffè Mozzi di Ferrara, soprannominato da Balbo e i suoi “sitùzz”, ovvero piccolo posto, posticino.
Il gruppo di Italo Balbo, in parte finanziato dai proprietari terrieri locali, contrastava i disordini provocati durante il biennio rosso dagli scioperi e dal monopolio instaurato violentemente dalle leghe socialiste attraverso spedizioni punitive, motivate con le aggressioni ai camerati, che colpivano i social-comunisti e le cooperative contadine delle province di Ravenna, Modena, Bologna ma anche Rovigo, il Polesine, Firenze e Venezia. Le leghe socialiste, sostengono più fonti fra cui il Guerri, detenevano un enorme potere, che permetteva loro di emarginare coloro che non aderivano, dirottando solo verso i propri affiliati i finanziamenti pubblici e facendosi rimborsare dalla comunità le spese elettorali. Perennemente in camicia nera, Balbo era il massimo propagandista di questo emblema del fascismo, ottimo organizzatore, di grande fascino fisico, alto, magro e con i capelli neri divisi nel mezzo con due svolazzanti bande ai lati. Trattare alla pari con questori e prefetti a soli venticinque anni, avendone anche la meglio, lo rese ambizioso.
Conquistò con i suoi uomini il Castello Estense di Ferrara obbligando il prefetto a finanziare alcune misure contro la disoccupazione, ma l’apice dello squadrismo di Italo Balbo venne raggiunto il 26 e 27 luglio 1922 con l’occupazione di Ravenna, usando a pretesto l’uccisione di un fascista: i disordini provocarono nove morti tra le camicie nere, a cui Balbo rispose incendiando l’Hotel Byron, sede delle cooperative socialiste, e imbastendo quella che Mussolini chiamò una «colonna di fuoco», cioè una colonna di autocarri, messi a disposizione dietro minaccia dalla questura, che il 29 luglio distrusse e incendiò numerose “case rosse” nelle province di Forlì e Ravenna. Compiaciuto e soddisfatto del comportamento tenuto dai suoi uomini, Balbo completò la smobilitazione di Ravenna il mattino seguente.
Nel tentativo di arginare le violenze squadriste, il Prefetto emanò un ordine con cui vietava il porto del manganello. Balbo, alcuni dicono su suggerimento della moglie, armò i suoi uomini di stoccafissi i quali, picchiati con energia sulla testa degli avversari, vi producevano gli stessi effetti; i “randelli” di fortuna facevano poi da piatto forte di grandi mangiate conviviali cui talvolta venivano invitate anche le stesse vittime.
Nell’agosto del 1922 avvennero i Fatti di Parma: dopo l’occupazione militare di gran parte della città dell’Emilia, conseguente al cosiddetto sciopero legalitario di inizio mese, circa diecimila uomini di fede fascista provenienti dalle province limitrofe tentarono la presa della città, in cui si trovavano asserragliati gli Arditi del Popolo e le formazioni di difesa proletaria. Il 5 agosto il governo proclamò lo stato d’assedio militare in diverse provincie del nord fra cui Parma. Il 6 agosto, Italo Balbo, resosi conto dell’impossibilità di conquistare la città senza scontrarsi con l’esercito (su consiglio anche del capo della polizia locale, Lodomez.), s’impegnò a ritirarsi dalla città a partire dalle ore 12:00 del giorno stesso. Alla fine si contarono quattro morti a Sala Baganza (due nelle file fasciste e due tra gli abitanti) e cinque morti a Parma, tutti abitanti del quartiere Oltretorrente. I cinque caduti fra le file delle formazioni di difesa proletaria furono: Ulisse Corazza, consigliere comunale del Partito Popolare Italiano, Carluccio Mora, Giuseppe Mussini, Mario Tomba ed il giovanissimo Gino Gazzola
Balbo (a sinistra) a fianco di Benito Mussolini in una foto del 1923.
Il Quadrumviro Italo Balbo
Italo Balbo venne designato da Mussolini quadrumviro per prendere parte alla marcia su Roma, e lo incaricò di scegliere gli altri due (Michele Bianchi era già stato scelto dal Duce): Balbo sentì Cesare Maria De Vecchi, che accettò subito, mentre per l’ultimo quadrumviro pensò ad Attilio Teruzzi, poi scartato perché già vicesegretario del PNF, e al generale Asclepia Gandolfo, che declinò l’invito in quanto aveva la moglie molto malata, oltre a essere lui stesso in precarie condizioni fisiche. Balbo e Bianchi puntarono alla fine su Emilio De Bono, che accettò l’investitura. Prima di recarsi a Roma, il 28 ottobre Balbo si precipitò a Firenze per calmare lo squadrista Tullio Tamburini, che aveva deciso di assaltare il palazzo del governo dove si stava svolgendo una festa alla presenza del duca della Vittoria Armando Diaz: per non coinvolgere l’esercito nelle questioni fasciste, Balbo liberò gli ufficiali della scorta di Diaz presi prigionieri da Tamburini, e, stando al suo racconto, vietò «ai fascisti di assaltare la prefettura […] anzi […] che organizzino una grande manifestazione al Duca della Vittoria per le strade di Firenze dove passerà»[45]. A Roma guidò in particolare la spedizione punitiva contro il quartiere di San Lorenzo che aveva attaccato una colonna fascista. Alla fine della marcia, diversamente dagli altri quadrumviri, Balbo non venne ricompensato in alcun modo: secondo alcuni autori Mussolini già lo intravedeva come un possibile rivale e non volle valorizzarlo troppo.
Sempre nel 1922 iniziò a formare, in città, un gruppo ristretto di collaboratori fidati, tra i quali l’amico Renzo Ravenna. Questi venne candidato alle elezioni amministrative che si tennero alla fine di quello stesso anno, dove fu eletto assessore.
Al governo
Dall’11 gennaio 1923 Balbo fu membro del Gran consiglio del fascismo. Il 1º febbraio 1923 fu nominato comandante generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (vice di De Bono).Voluta da Mussolini per normalizzare le squadre d’azione, il Duce pensò alla MVSN già prima della marcia su Roma, affidando a Balbo e ad Asclepia Gandolfo il compito di formare reparti, gradi e uniformi, sebbene non ci fu ancora una vera e propria militarizzazione del corpo.[48] Nel 1923 intanto Balbo fondò a Ferrara il Corriere Padano con i soldi ricevuti in dote dalla moglie Emanuela, affidato poi alla direzione di Nello Quilici.
In occasione della preparazione della Lista Nazionale per le elezioni del maggio 1924, con cui fu eletto deputato alla Camera, si scontrò con Olao Gaggioli, fondatore del Fascio di Ferrara e convinto che Italo Balbo, iscritto soltanto dal 1921 e con lo stipendio fisso pagato dagli agrari, fosse un intruso.
Sempre nel 1924 venne accusato di essere il mandante dell’omicidio del parroco antifascista don Giovanni Minzoni ad Argenta, avvenuto per mano di due squadristi facenti capo alle sue milizie: il caso venne archiviato alcuni mesi dopo, per essere poi riaperto – sotto la pressione della stampa, a seguito del delitto Matteotti – nel 1925, risolvendosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il 21 novembre 1924 però Balbo fu costretto a dimettersi dalla carica di comandante della Milizia a seguito delle documentate rivelazioni de La Voce Repubblicana circa ordini da lui impartiti di bastonature di antifascisti e pressioni sulla magistratura, perdendo la successiva causa per diffamazione da lui intentata al quotidiano. Balbo intanto, a Ferrara, continuò ad operare in modo da avere persone di sua fiducia e rappresentative nelle posizioni di potere. L’amico Ravenna, da sempre estraneo ad ogni atto di squadrismo, fortemente nazionalista, ebreo ma con una visione laica della sua fede fu invitato ad iscriversi al PNF, e successivamente, alla fine del 1924, nominato Segretario Federale Ferrarese del PNF.
Il 31 ottobre 1925 entrò nel governo Mussolini come sottosegretario all’economia nazionale, e con lui si trasferì a Roma anche Ravenna. Rimase in carica sino al 6 novembre 1926
Ministro dell’Aeronautica
In quella data infatti venne nominato sottosegretario di Stato al Ministero dell’Aeronautica, di cui lo stesso Mussolini era ministro ad interim, al posto del generale d’artiglieria Alberto Bonzani. Si apprestò ad organizzare la neocostituita Regia Aeronautica come forza armata autonoma, ancora ai primi passi, coi bilanci insufficienti, bisognosa di un ammodernamento e di un aumento di prestigio. Con la sua nomina Mussolini ottenne l’occasione per fare dell’aviazione un’arma anche propagandistica, assecondando chi nel PNF voleva alla guida dell’aeronautica un esponente del fascismo mettendo inoltre sotto il suo diretto controllo uno dei più autonomi ras federali.
Italo Balbo, al centro in divisa, nel 1930 assieme allo staff della crociera aerea transatlantica Italia-Brasile.
Italo Balbo conseguì il brevetto da pilota nel 1927 e diede una sede stabile al ministero facendo costruire un nuovo palazzo con criteri architettonici razionalisti. Avviò la fondazione della città dell’aria a Guidonia con un moderno centro di ricerca aeronautica dove lavorarono Gaetano Arturo Crocco, Luigi Crocco, Antonio Ferri e Luigi Broglio. Inoltre fece nascere un centro studi per coordinare e promuovere lo sviluppo aeronautico, affidandone il comando ad Alessandro Guidoni. Balbo fece nascere anche il Reparto Sperimentale Alta Velocità, a Desenzano del Garda, dove prima sorgeva l’idroscalo privato di Gabriele D’Annunzio. Il direttore, tenente colonnello Mario Bernasconi, ebbe a disposizione ogni tipo di struttura e materiale per consegnare all’Italia l’ambita Coppa Schneider.
Le trasvolate
Fu un successo la crociera aerea del Mediterraneo occidentale (25 maggio-2 giugno 1928) da lui organizzata insieme al decisivo aiuto del trasvolatore Francesco De Pinedo, venne nominato sottocapo di stato maggiore della Regia Aeronautica.
La successiva crociera aerea del Mediterraneo orientale (5-19 giugno 1929) fu presieduta sempre da Balbo, ma De Pinedo venne incluso come semplice pilota di uno degli aerei della formazione, in quanto la direzione tecnica del volo andò al colonnello Aldo Pellegrini, capo del gabinetto di Balbo. Il 20 aprile 1929 intanto fu rieletto deputato alla Camera per il PNF. Quasi due mesi dopo, il 12 agosto, Balbo sfruttò le voci che giravano su De Pinedo e gli chiese conto dei fondi a lui destinati per compiere il raid atlantico del 1927. De Pinedo rispose indirizzando una lettera a Mussolini in cui criticava le crociere spettacolari e propagandistiche che ponevano in secondo piano la preparazione bellica (senza sapere che Mussolini era contento di questa strategia), dando poi le dimissioni da sottocapo di stato maggiore, che il Duce accolse con favore, reputandolo non in grado di comprendere le esigenze del regime.
Il 12 settembre 1929, a soli trentatré anni, Italo Balbo, che era stato promosso generale di squadra aerea, fu nominato ministro dell’Aeronautica, carica tenuta fino ad allora dal Duce. De Pinedo venne allontanato con l’incarico di addetto aeronautico in Argentina. In questi anni Balbo era ricco, potente e famoso, ancora esuberante ed entusiasta, con amicizie nel mondo della cultura e dell’industria che lo avevano affermato tra l’alta borghesia e la nobiltà romana.
Balbo guidò poi due crociere aeree transatlantiche in formazione, inframezzati, nel 1932, da una proposta avanzata a Mussolini circa l’istituzione di un unico ministero per la difesa, sostenuto dalla quadruplicazione delle somme destinate alla marina e all’aeronautica. Alla guida del nuovo ministero sarebbe dovuto andare lo stesso Balbo ma, benché alcuni capi militari vedessero di buon occhio l’iniziativa, le rivalità tra le forze armate e, soprattutto, la gelosia del Duce nei confronti della popolarità del ministro aviatore, fecero naufragare l’intero progetto
Per un’altra fonte il nuovo dicastero sarebbe spettato a Mussolini, mentre Balbo progettava di ridefinire i compiti del capo di stato maggiore generale e di prendere possesso di tale carica. La prima idea per una crociera aerea oltreoceano gli venne in mente durante un congresso internazionale aeronautico negli Stati Uniti, dove si convinse che il primo gruppo di aerei che avesse attraversato in formazione l’oceano Atlantico sarebbe passato alla storia. Nel 1929 persuase l’ingegnere Alessandro Marchetti a mettere a punto per l’impresa gli idrovolanti S.55A che sarebbero andati ad equipaggiare uno stormo creato ad hoc a Orbetello. Si scelse di trasvolare l’Atlantico meridionale con dodici apparecchi, a cui la Regia Marina avrebbe fornito appoggio con cinque cacciatorpediniere.
Gli idrovolanti partirono infine per la crociera aerea transatlantica Italia-Brasile da Orbetello il 17 dicembre 1930, guidati personalmente da Balbo e dal suo secondo pilota Stefano Cagna, alla volta di Rio de Janeiro, dove arrivarono, non senza lutti e incidenti, il 15 gennaio 1931.
La seconda crociera atlantica, la crociera aerea del Decennale, venne organizzata per celebrare il decennale della Regia Aeronautica in occasione della Century of Progress, esposizione universale che si tenne a Chicago tra il 1933 ed il 1934.
Dal 1º luglio al 12 agosto del 1933 Balbo guidò la trasvolata di venticinque idrovolanti S.55X partiti da Orbetello verso il Canada e con destinazione finale gli Stati Uniti.
La traversata di andata approdò in Islanda, proseguendo poi verso le coste del Labrador. Il governatore dell’Illinois, il sindaco e la città di Chicago riservarono ai trasvolatori un’accoglienza trionfale. Venne annunciato che la giornata del 15 luglio era stata proclamata “Italo Balbo’s day” e che la settima strada, in prossimità del lago Michigan, sarebbe stata rinominata “Balbo Avenue”. La decisione di intitolare una strada di Chicago a un gerarca fascista, per niente controversa in un periodo di grande popolarità internazionale per Balbo e nel quale i rapporti tra il regime e gli Stati Uniti erano distesi, viene contestata decenni dopo. Già nell’immediato dopoguerra vi furono obiezioni: l’antifascista Alberto Tarchiani, ambasciatore italiano a Washington, ne chiese conto al sindaco di Chicago, il quale rispose: “Perché, Balbo non ha trasvolato l’Atlantico?” Tra le varie manifestazioni di entusiasmo per l’impresa, particolarmente curiosa fu la nomina a capo indiano da parte dei Sioux presenti all’Esposizione di Chicago con il nome di “Capo Aquila Volante”. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove venne organizzata in suo onore e degli altri equipaggi una grande ticker-tape parade, secondo italiano dopo Armando Diaz ad essere acclamato per le strade di New York, ed intitolato a Balbo uno dei suoi viali. Il presidente Roosevelt lo ebbe ospite.
Di ritorno in Italia, il 13 agosto 1933 venne promosso Maresciallo dell’aria. Dopo questo episodio il termine “Balbo” divenne di uso comune per descrivere una qualsiasi numerosa formazione di aeroplani. Meno noto è che negli Stati Uniti il termine “balbo” sia utilizzato anche per indicare il pizzo lungo con baffi. Italo Balbo in uniforme da Maresciallo dell’aria
Al di là di queste imprese, Balbo dispiegò grande energia nell’imporre disciplina e rigore alla Regia Aeronautica sin da quando ne era segretario, accantonando gli aspetti romantici ed individualistici dell’aviazione pionieristica ed indirizzandola piuttosto a formare una forza armata coesa e disciplinata. I voli transoceanici in formazione furono un esempio di tale indirizzo: non più imprese individuali, ma di gruppo e minuziosamente programmate e studiate. Così facendo però diede troppo peso agli eventi spettacolari, inducendo l’aviazione a dare troppa attenzione ai primati sportivi, senza ricadute positive sugli aerei usati per il normale servizio. Il prestigio accumulato dall’aviazione durante il ministero di Balbo, comunque, diede alle autorità italiane l’impressione di avere una forza aerea di prim’ordine. È da rilevare che se Balbo avallò le idee di Giulio Douhet sull’aviazione strategica, nel contempo sostenne fattivamente la costituzione dello Stormo d’assalto sotto il comando di Amedeo Mecozzi, incoraggiando lo sviluppo dell’aviazione tattica.
Balbo si avvalse di queste due linee di pensiero per raggiungere «l’unità organica della difesa dell’aria, e la necessità che sia esclusivamente affidata all’armata aerea, nella quale viene riunito tutto il complesso delle forze […] disponibili», senza tuttavia dare all’aeronautica «una vera e propria dottrina di guerra fissata in canoni rigidi e immutabili» che, comunque, non era in grado di imporrei ai capi dell’esercito e della marina, nonché agli industriali desiderosi di aggiudicarsi il più alto numero di commesse per allargare il già eterogeneo parco velivoli. È proprio per questo attaccamento alla guerra aerea indipendente che Balbo non affidò mai alcun incarico a Douhet e trasferì, nel 1937, il neo-promosso generale Mecozzi nella lontana Somalia. Si oppose alla concessione di bombardieri alla Regia Marina e alla realizzazione di navi portaerei, che riteneva avrebbero sottratto fondi e materiale alla Regia Aeronautica riducendo anche l’indipendenza della neonata arma aerea. La mancata realizzazione di portaerei influì negativamente sulle operazioni della Regia Marina nel secondo conflitto mondiale (vedasi battaglia di Capo Matapan), ma sarebbe un errore attribuirne la responsabilità alla sola opposizione di Balbo, vista la posizione conservatrice dei vertici della Regia Marina.
In Libia
Raggiunta un’enorme popolarità e considerato politicamente come un insidioso rivale di Mussolini (pesò anche la proposta di riforma dei ministeri delle forze armate), il regime impose che il nome di Balbo non comparisse più di una volta al mese sui quotidiani e fu probabilmente per queste motivazioni che Balbo venne promosso governatore della Tripolitania italiana, della Cirenaica italiana e del Fezzan che, sotto il suo patronato, si fusero nel 1934 in un’unica colonia: la Libia, procedendo poi ad una nuova organizzazione territoriale su province.
Balbo ricevette la lettera in cui gli si comunicavano i nuovi compiti il 5 novembre 1933, rispose con un «Mio grande capo, sempre agli ordini!» e il 7 si recò da Mussolini per la consueta visita di congedo. Il ministero dell’aviazione ritornò nelle mani del Duce, che dimissionò anche Raffaello Riccardi da sottosegretario, mentre il generale Giuseppe Valle rimase capo di stato maggiore ed assunse anche l’incarico di Sottosegretario.
In questa nuova veste il generale Valle scrisse un rapporto segreto in cui dimostrò che Balbo aveva falsificato le cifre sull’effettiva consistenza numerica degli aeroplani, salvo essere accusato dal suo successore, Francesco Pricolo, di aver fatto la stessa cosa. Data l’attitudine dei capi fascisti di mettersi in cattiva luce l’un l’altro agli occhi di Mussolini, le dichiarazioni di Valle sono da prendere con cautela: Balbo, nei fatti, fu certamente più energico e miglior organizzatore della maggior parte dei suoi colleghi. In ogni caso anche il Duce, pochi giorni dopo averlo licenziato, lo informò che la cifra di 3 125 aeroplani in forza alla Regia Aeronautica da lui fornita era esagerata. Balbo dovette scusarsi chiarendo che aveva incluso nei conteggi anche gli aerei da addestramento, da turismo e addirittura quelli in produzione. Il vero numero degli aerei efficienti al combattimento era, secondo Balbo, 1.765. Mussolini capì che la politica dei raid oltreoceano e dei primati, peraltro da lui sostenuta, aveva distolto l’attenzione dall’efficienza bellica dell’Arma azzurra.
Il 16 gennaio 1934 sbarcò a Tripoli e lanciò un proclama: «Assumo da oggi, in nome di Sua Maestà, il governo. I miei tre predecessori, Volpi, De Bono, Badoglio, hanno compiuto grandi opere. Mi propongo di seguire le loro orme». Balbo, in accordo con il piano di Mussolini, dette un fortissimo impulso alla colonizzazione italiana della Libia, organizzando l’afflusso di decine di migliaia di pionieri dall’Italia e seguendo una politica di integrazione e pacificazione con le popolazioni musulmane affermando che, diversamente dalle popolazioni dell’Africa orientale, quelle libiche avevano un’antica tradizione di civiltà e che col tempo, grazie alla loro intelligenza e alle loro tradizioni, si sarebbero portate al di sopra del livello coloniale. Proprio in senso di questo proposito per prima cosa, una volta giunto in Libia, Balbo fece immediatamente chiudere (contro il volere di Mussolini) cinque campi di concentramento italiani creati contro le popolazioni locali. Ampliò la superficie del territorio nazionalizzato a 1 250 000 acri, adoperandosi per migliorare la situazione delle popolazioni locali finanziando servizi scolastici e sanitari, rifornimenti idrici e servizi di consulenza agricola; in Cirenaica, tuttavia, per rinsaldare la sconfitta dei Senussi, vennero confiscate le proprietà delle tribù e la loro struttura sociale distrutta, deportandone i membri per farne una riserva di manodopera a basso costo.
Nel 1937 Balbo si fece promotore presso il Duce, in visita alla colonia, di un’iniziativa per donare alla popolazione indigena, quale ricompensa per aver prestato servizio militare in Etiopia, la cittadinanza italiana, una proposta che alla fine sfociò in una cittadinanza di “seconda classe” a soltanto pochi elementi. Nel 1938 guidò di persona un convoglio di diciassette navi partito dall’Italia alla volta della Libia con a bordo 1 800 famiglie, per la cui venuta furono fondati 26 nuovi villaggi, principalmente in Cirenaica, ognuno con un municipio, un ospedale, una chiesa, un ufficio postale, una stazione di polizia, un locale per bere il caffè, una cooperativa di consumo, un mercato e una sede del PNF. Sull’evento fu organizzata una grande campagna pubblicitaria, che Mussolini fece presto tacere per non dare troppo risalto alla figura di Balbo. Vennero donate terre, bestiame e sementi agli agricoltori (in misura minore agli arabi), anche se i frutti di queste politiche non fecero in tempo a maturare prima dell’inizio della seconda guerra mondiale. Inoltre si cercò di assimilare i musulmani libici con una politica apparentemente amichevole, fondando nel 1939 dieci villaggi per gli Arabi e i Berberi libici: “El Fager” (al-Fajr, “Alba”), “Nahima” (Deliziosa), “Azizia” (‘Aziziyya, “Meravigliosa”), “Nahiba” (Risorta), “Mansura” (Vittoriosa), “Chadra” (khadra, “Verde”), “Zahara” (Zahra, “Fiorita”), “Gedida” (Jadida, “Nuova”), “Mamhura” (Fiorente), “Beida” (al-Bayda’, “La Bianca”). Tutti questi villaggi avevano la loro moschea, scuola, centro sociale (con ginnasio e cinema) ed un piccolo ospedale. Questo massiccio investimento italiano però non migliorò in maniera rilevante la qualità della vita della popolazione libica; anzi contribuì a peggiorarla in quanto l’obiettivo principale della costruzione di questi villaggi era allontanare le popolazioni locali dalle aree più fertili per favorire così l’economia dei coloni italiani.
Anche il turismo venne curato con la istituzione dell’ETAL, Ente turistico alberghiero della Libia, il quale gestiva alberghi, linee di autobus di gran turismo, spettacoli teatrali e musicali nel teatro romano di Sabratha, il Gran Premio automobilistico della Mellaha (detto internazionalmente “Tripoli Grand Prix” e disputato dal 1925 al 1940), una località entro le oasi tripoline ed altre iniziative.
Vennero avviati progetti di opere pubbliche e sviluppo della rete stradale (ma non di quella ferroviaria) realizzando, oltre ai 1822 km della litoranea che segue il Mediterraneo per centinaia di chilometri e che in suo onore si chiamò via Balbia, 1600 km di strade asfaltate, 454 km di massicciate e 2830 km di piste nel deserto con numerose case cantoniere doppie per le due famiglie il cui compito sarebbe stato quello di occuparsi della manutenzione delle strade.
Grave fu però la mancanza di infrastrutture in grado di far operare le forze armate sue due fronti: i porti erano insufficienti mentre altri, come quello di Tripoli, erano poco difesi; la frontiera ovest era «praticamente aperta» (parole dello stesso Balbo) mentre quella est insicura e poco presidiata. Balbo era cosciente di tutto questo, tanto che si lamentò con Mussolini per la carenza o l’obsolescenza delle apparecchiature militari di sua disponibilità. I tanti soldi che Balbo spendeva in sontuose feste e per la vita privata gli affibbiarono il soprannome di “Sciupone l’Africano”, e ci fu anche chi mise in circolazione l’idea che si era arricchito grazie ai lavori per le opere pubbliche, specialmente con la via Balbia. Il governatore della Libia amava spendere e sperperare, ma in realtà non si arricchì in modi illeciti. Balbo era già ricco (la dote della moglie e il suo curriculum vitae gli avevano portato da soli due valide giustificazioni al tenore di vita che conduceva) inoltre, quando il ragioniere dello Stato controllò i fondi stanziati per la via Balbia (103 milioni di lire assegnate a undici imprese coordinate da 45 funzionari del genio civile ed operanti con circa 12 000 operai fra libici e coloni italiani) si complimentò con lui per aver contenuto la spesa: da Roma se ne era prevista una più alta, segno che Balbo non prese alcuna tangente. La manovalanza libica ebbe un regolare contratto che andava dalle 6 alle 12 lire al giorno contro le 25 – 30 lire degli operai italiani, e questo permise l’economicità dell’opera, nonostante le 50 lire di anticipo elargite agli operai libici da lasciare alla famiglia.
L’entrata in guerra
Nelle sue direttive del 31 marzo 1940 Benito Mussolini aveva delineato in termini generali la strategia globale che avrebbe dovuto essere seguita dalle forze armate italiane nel caso sempre più probabile di una entrata in guerra a fianco del Terzo Reich contro la Francia e la Gran Bretagna. Riguardo al teatro bellico nordafricano il Duce stabiliva che a causa della difficile situazione geografica della Libia teoricamente minacciata sia dall’Egitto britannico che dal Nordafrica francese, le forze italiane nella colonia, comandate da Balbo, avrebbero dovuto mantenersi sulla difensiva. Le forze francesi in Marocco, Algeria e Tunisia del generale Charles Noguès ammontavano a otto divisioni mentre le truppe britanniche in Egitto erano calcolate dal servizio informazioni italiano in circa cinque divisioni; quindi dopo l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale il 10 giugno 1940 Mussolini confermò le sue direttive difensive. La situazione cambiò con la sconfitta della Francia e l’armistizio del 25 giugno 1940 a Villa Incisa; le colonie francesi vennero neutralizzate e il maresciallo Balbo poté concentrare la maggior parte delle sue forze sul confine libico-egiziano.
Le forze italiane in Libia del maresciallo Balbo apparivano sulla carta adeguate al teatro bellico coloniale; dalla fine degli anni trenta erano state inviate una serie di unità di fanteria destinate in realtà prevalentemente a compiti difensivi. In totale il 10 giugno 1940 erano presenti in Libia quattordici divisioni con 236 000 soldati, 1 427 cannoni, 339 carri armati leggeri L3, 8 039 automezzi; queste forze erano suddivise tra la 5ª Armata che al comando del generale Italo Gariboldi copriva il confine occidentale con sei divisioni di fanteria e due divisioni di camicie nere, e la 10ª Armata del generale Mario Berti che, con tre divisioni di fanteria, due divisioni libiche e una divisione di camicie nere, era schierata sul confine egiziano. La Regia Aeronautica disponeva in Libia di circa 250 aerei in maggioranza di modelli non molto moderni ospitati in basi sguarnite e poco difese, e necessitavano di urgenti rifornimenti. Queste forze erano forti numericamente ma in realtà si trattava di reparti prevalentemente appiedati, privi di automezzi sufficienti, con gravi carenze di armamento soprattutto nei mezzi corazzati, poco addestrate alla guerra nel deserto.
Consapevole da tempo dell’inferiorità delle truppe a sua disposizione in caso di guerra Balbo aveva, in tempo di pace, sperimentato la creazione di nuclei specializzati per sopperire all’inadeguatezza di mezzi italiani dando origine alle Compagnie auto-avio sahariane (queste ultime comporranno poi una parte del Raggruppamento Maletti) equivalenti dei più noti Desert Rats con lo scopo di compiere ricognizioni a lungo raggio o veloci incursioni (agevolate dalla loro completa motorizzazione, eccezione notevole per l’esercito italiano di quel contesto) e molto ben coordinate con i reparti di aviazione assegnatagli in modo permanente.
Per sopperire, in minima parte, alla mancanza di mobilità delle proprie truppe, dovuta alle caratteristiche di un territorio che comunque avrebbe dovuto essere idealmente difeso da forze in grado di intervenire e spostarsi celermente, Balbo creò, coadiuvato dal fidato collaboratore Stefano Cagna, nell’aeroporto di Castel Benito il primo battaglione paracadutistico del Regio Esercito, denominato Battaglione Fanti dell’aria, agli ordini di Goffredo Tonini, che più tardi avrebbe dato origine alla Folgore.
Le forze britanniche presenti sul confine egiziano all’inizio della guerra dipendevano dal Comando del Medio Oriente del generale Archibald Wavell ed erano molto meno numerose, due divisioni con 36.000 soldati in totale, ma, essendo completamente motorizzate e fornite di mezzi corazzati e meccanizzati idonei alla veloce guerra nel deserto, erano molto più mobili e si dimostrarono subito pericolose per i presidi fissi italiani. Il maresciallo Balbo rilevò la superiorità tattica e tecnica dei britannici e la segnalò al maresciallo Pietro Badoglio; tuttavia nonostante questi avvertimenti, il Comando Supremo a Roma ordinò il 28 giugno 1940 al governatore di raggruppare tutte le forze disponibili sul confine libico-egiziano ed invadere l’Egitto.
Fin dai primi giorni di guerra le autoblindo britanniche causarono diversi problemi agli italiani e l’eliminazione di queste divenne importante. Balbo catturò la prima autoblindo il 21 giugno 1940 a Bir el Gobi: avvistato il mezzo in volo col suo S.M.79, il governatore scese immediatamente a terra mentre il secondo pilota Ottavio Frailich ridecollò subito circuitando con aria minacciosa sopra l’autoblindo, poi catturato dalle truppe di terra coordinate da Balbo.
L’ultimo volo
Il 28 giugno 1940 si levò in volo da Derna per raggiungere il campo d’aviazione “T.2” dell’Aeroporto di Tobruch con due trimotori S.M.79, uno pilotato da lui stesso (che però non aveva il codice radio I-MANU; questo codice era in realtà di un S.75 assegnato in precedenza al Governatore della Libia come aereo personale con la sigla I-MANU, dal nome della moglie Emanuela) e uno dal generale Felice Porro, comandante della 5ª Squadra aerea. Da Tobruch i due aerei avrebbero poi compiuto un’incursione per cercare di catturare alcune autoblindo nemiche. L’equipaggio era costituito da Italo Balbo, pilota, dal maggiore Ottavio Frailich, secondo pilota, dal capitano motorista Gino Cappannini e dal maresciallo marconista Giuseppe Berti. Frailich, Cappannini e Berti erano tutti “atlantici” che avevano già volato con Balbo nella Crociera del Decennale. All’equipaggio vero e proprio si aggiunsero il maggiore Claudio Brunelli (direttore generale dell’ETAL di Tripoli), i tenenti Francesco detto ‘Cino’ Florio e Lino Balbo (rispettivamente cognato e nipote di Italo Balbo), il console generale della Milizia onorevole Enrico Caretti (segretario federale del PNF di Tripoli), ed il capitano di complemento Nello Quilici, direttore del Corriere Padano e padre di Folco Quilici.
Giunti in vista di Tobruch verso le 17:30 i piloti videro alte colonne di fumo dovute a un attacco britannico effettuato con bombardieri Bristol Blenheim, e Balbo ordinò di atterrare per verificare la situazione. Prossimo all’atterraggio senza aver tuttavia avvisato prima la base, fu scambiato dalla contraerea di terra e dall’incrociatore italiano San Giorgio – all’ormeggio nei pressi del porto come batteria galleggiante – per uno degli aerei britannici che poco prima avevano attaccato le attrezzature navali lì presenti e fu di conseguenza preso di mira e colpito dalle batterie del San Giorgio. L’aereo di Porro riuscì a compiere una manovra diversiva e non fu centrato, mentre quello di Balbo, ormai in fase di atterraggio, precipitò in fiamme al suolo, provocando la morte di tutto l’equipaggio.
Il 29 giugno Mussolini dichiarò: «un bell’alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi». Badoglio, che era con lui ad Alpignano quando apprese della notizia, disse che il Duce non dimostrò «il minimo turbamento» Galeazzo Ciano invece annotò sul suo diario che «Balbo non meritava questa fine: era esuberante, irrequieto, amava la vita in ogni sua manifestazione. […] Non aveva voluto la guerra e l’aveva osteggiata fino all’ultimo. […] Il ricordo di Balbo rimarrà a lungo tra gli italiani, perché era, soprattutto, un italiano con i grandi difetti e le grandi qualità della nostra razza.» Sul bollettino delle forze armate apparve il seguente comunicato:
«Il giorno 28, volando sul cielo di Tobruch, durante un’azione di bombardamento nemica, l’apparecchio pilotato da Italo Balbo è precipitato in fiamme. Italo Balbo e i componenti dell’equipaggio sono periti. Le bandiere delle Forze Armate d’Italia s’inchinano in segno di omaggio e di alto onore alla memoria di Italo Balbo, volontario alpino della guerra mondiale, Quadrumviro della Rivoluzione, trasvolatore dell’Oceano, Maresciallo dell’Aria, caduto al posto di combattimento.» |
Due giorni dopo la sua morte, un aereo britannico paracadutò sul campo italiano una corona di alloro con un biglietto di cordoglio:
«Le forze aeree britanniche esprimono il loro sincero compianto per la morte del Maresciallo Balbo, un grande condottiero e un valoroso aviatore che la sorte pose in campo avverso.» |
Uno dei resti del trimotore S.M.79, esposto alla mostra itinerante Mari e cieli di Balbo nel Museo dell’aeronautica Gianni Caproni, nel marzo 2016
Le giornate dal 29 giugno al 4 luglio 1940 vennero dichiarate di lutto nazionale. Il 30 giugno il corteo funebre portò le salme dei caduti fino a Bengasi, dove il 1º luglio si svolsero i riti funebri. Il giorno successivo le salme furono portate in aereo a Tripoli, dove venne allestita una camera ardente nell’ufficio che era stato di Balbo nella sede del governo coloniale. Il 4 luglio, dopo una messa nella cattedrale di San Francesco, le bare vennero portate per le strade di Tripoli. Su proposta di Mussolini i resti di Balbo vennero sepolti nel luogo scelto per il monumento ai caduti, con l’idea di trasferirli in Italia a guerra finita. Il regime lo insignì della Medaglia d’oro al valor militare.
Le salme di Balbo e degli altri caduti nell’incidente di Tobruch rimasero in Libia fino al 1970, quando l’ondata di nazionalismo libico sollevata dal colonnello Muʿammar Gheddafi minacciò la distruzione dei cimiteri italiani nell’ex-colonia. La famiglia Balbo rimpatriò la salma in Italia e come luogo finale di sepoltura venne scelto Orbetello. Qui Balbo riposa con tutti i membri dell’equipaggio del suo ultimo fatale volo, ad eccezione di Nello Quilici.