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L’impresa di Fiume fu un episodio del periodo interbellico, che consistette nell’occupazione della città di Fiume, contesa tra il Regno d’Italia ed Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, da parte di reparti ribelli del Regio Esercito italiano. L’intento fu quello di proclamare l’annessione della città all’Italia forzando in tal modo la mano ai delegati delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, all’epoca impegnati nella Conferenza di pace di Parigi. La spedizione fu capeggiata dal poeta Gabriele D’Annunzio e organizzata da una coalizione politica guidata dall’Associazione Nazionalista Italiana, cui parteciparono esponenti del Mazzinianesimo, del Futurismo e del Sindacalismo rivoluzionario. L’occupazione iniziò il 12 settembre 1919 e durò 16 mesi con alterne vicende, tra cui la proclamazione della Reggenza italiana del Carnaro. Quando i ribelli si opposero al Trattato di Rapallo, il governo italiano sgombrò la città con la forza durante il Natale 1920, per permettere la creazione dello Stato libero di Fiume.
Il contesto nel primo dopoguerra
In verde chiaro sono indicati i territori rivendicati dall’Italia con Patto di Londra del 1915. La Dalmazia settentrionale, nel 1919, venne invece assegnata, contro la volontà dell’Italia, al nuovo regno serbo-croato-sloveno. La mancata annessione della Dalmazia all’Italia fu una delle cause di insoddisfazione che portarono alla definizione di “vittoria mutilata”, che venne in parte mitigata dal trattato di Rapallo (1920), per i risultati della pace
La città multietnica di Fiume era un Corpus separatum e municipio autonomo dell’Impero austro-ungarico. Un censimento del 1910 (nel quale fu richiesta la lingua d’uso), calcolò una popolazione di 49 806 abitanti: 24 212 dichiaravano di parlare l’italiano, 12 926 il croato e altre lingue, soprattutto ungherese, sloveno e tedesco. Nel censimento non si consideravano i dati dell’entroterra e della località di Sussak, quartiere a maggioranza croata separato dalla città dal fiume Eneo. Durante le trattative di pace del 1918, l’Italia ottenne le terre “irredente”: Trento, Trieste e l’Istria. Il presidente statunitense Woodrow Wilson si oppose all’annessione italiana di altre terre. I territori contesi erano, in particolare, la regione della Dalmazia, (parte della quale era stata richiesta dall’Italia nel patto di Londra) e la città Fiume, situata in una regione prevalentemente croata ma reclamata da Roma in quanto abitata in maggioranza da italofoni. Nell’ottobre 1918 si costituirono a Fiume due governi: un Consiglio nazionale croato e un Consiglio nazionale italiano, di cui fu nominato presidente Antonio Grossich. Nel frattempo, i delegati italiani a Parigi Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, ingaggiarono con gli alleati una polemica che culminò con il loro temporaneo ritiro dalle trattative, tra il 24 aprile e il 5 maggio.
I preparativi ed i primi tumulti
A Fiume, nell’aprile 1919 l’irredentista fiumano Giovanni Host-Venturi e l’esponente nazionalista Giovanni Giuriati crearono una milizia di volontari filo-italiani per resistere in caso di annessione jugoslava della città. Nel frattempo Gabriele D’Annunzio si era recato a Roma per tenere una serie di comizi in favore dell’italianità di Fiume. I discorsi di D’Annunzio coinvolsero un numero crescente di reduci e adolescenti. Questa campagna diede origine al mito della vittoria mutilata, un modello di revanscismo che reclamava l’annessione all’Italia dell’intera costa orientale dell’Adriatico, nonostante fosse in larga parte popolata da croati (a sud di Fiume, la sola città a maggioranza italiana era Zara).
Tra la primavera e l’estate 1919, la situazione a Fiume divenne sempre più incandescente, a causa delle tensioni tra attivisti irredentisti (appoggiati dai militari italiani) e militari francesi, filo-jugoslavi. Il 29 giugno scoppiò un tafferuglio fra militari francesi e militanti pro-italiani, che ricevettero man forte da soldati italiani. Gli scontri, noti come “Vespri fiumani”, durarono fino al 6 luglio e provocarono la morte di nove francesi. Fu riunita una commissione militare interalleata, che decise lo scioglimento del Consiglio Nazionale Fiumano e pretese il ritiro dei reparti coinvolti negli scontri. I militari più politicizzati erano alcuni battaglioni dei Granatieri. I reparti lasciarono Fiume il 25 agosto, accompagnati da manifestazioni irredentiste, e si acquartierarono a Ronchi di Monfalcone. Qui, sette ufficiali determinati a tornare a Fiume inviarono a D’Annunzio una lettera, invitandolo a sostenere la lotta irredentista.
«Sono i Granatieri di Sardegna che Vi parlano. È Fiume che per le loro bocche vi parla. […] Noi abbiamo giurato sulla memoria di tutti i morti per l’unità d’Italia: Fiume o morte! e manterremo, perché i granatieri hanno una fede sola e una parola sola. L’Italia non è compiuta. In un ultimo sforzo la compiremo.» |
(Dalla lettera inviata a D’Annunzio da alcuni ufficiali dei Granatieri di Sardegna) |
Il 30 giugno d’Annunzio aveva già ricevuto una richiesta di sostegno da parte di una delegazione fiumana. Nel frattempo, nazionalisti e militari al confine avevano organizzato una rete di volontari, pronti ad un’azione di forza.
L’occupazione della città
Ai primi di settembre d’Annunzio garantì ai cospiratori che il 7 settembre 1919 avrebbe raggiunto Ronchi per guidare il ritorno dei granatieri a Fiume. I molti dubbi e un’improvvisa influenza lo costrinsero a onorare l’ impegno solo l’11 settembre. Prima di partire, D’Annunzio informò uno dei principali sostenitori della ribellione adriatica: Benito Mussolini, direttore del giornale Il Popolo d’Italia e fondatore dei Fasci italiani di combattimento.
«Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile… Sostenete la Causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio.» |
(D’Annunzio a Mussolini, 11 settembre 1919) |
D’Annunzio arrivò a Ronchi in compagnia di alcuni ufficiali, tra cui il tenente Guido Keller, il tenente Almerigo Ongaro e l’ufficiale alpino Cornelio Andersen, che requisì gli autocarri per il trasporto delle truppe. Il comandante dei granatieri, il maggiore Carlo Reina accettò di affiancare il poeta guidando una colonna ribelle a Fiume. All’alba del 12 settembre la colonna si mise in viaggio verso Fiume. Lungo la strada si unirono bersaglieri, cavalleggeri e Arditi, cui si aggiunsero i volontari irredentisti di Host-Venturi. Oltrepassato il confine e ignorati i richiami alla disciplina del governatore militare Vittorio Emanuele Pittaluga, D’Annunzio entrò in città acclamato dalla popolazione italiana. Nel pomeriggio lo scrittore si affacciò al palazzo del governatore e proclamò l’annessione di Fiume all’Italia.
«Italiani di Fiume! Nel mondo folle e vile, Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo ad un mare di abiezione… Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, credo di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d’Italia proclamando l’annessione di Fiume.» |
(Dal discorso tenuto da D’Annunzio il 12 settembre dal Palazzo del Governo di Fiume) |
Questa giornata sarà in seguito celebrata dallo stesso poeta come il giorno della “Santa Entrata“, ricalcando il nome col quale per secoli venne ricordato l’ingresso dei rappresentanti veneziani a Zara nel 1409.
I francesi e gli inglesi evitarono ogni intromissione, per non aumentare il rischio di scontri. Nelle settimane successive, altri reparti provenienti dal confine si unirono ai ribelli, fino a raggiungere una cifra approssimativa di 8.000-9.000 unità. Il 10 ottobre, il sindacato Film (Federazione italiana lavoratori del mare) dirottò su Fiume il piroscafo Persia carico di armi e munizioni. L’azione fu eseguita su ordine del segretario del sindacato, Giuseppe Giulietti, simpatizzante della rivolta.
Le reazioni del governo italiano
D’Annunzio costituì un “Gabinetto di Comando” al cui vertice pose Giovanni Giuriati. Il governo Nitti I guidato da Francesco Saverio Nitti disconobbe l’azione d’Annunzio e incaricò il Commissario straordinario per la Venezia-Giulia, il generale Pietro Badoglio, di reprimere la ribellione. Il commissario inviò un aereo su Fiume, per lanciare un proclama in cui si ordinava ai ribelli di rientrare nei ranghi, dichiarando disertori coloro che avessero persistito nell’occupazione di Fiume.
L’ultimatum di Badoglio non sortì effetti significativi. Nitti decise di porre la città sotto embargo impedendo l’afflusso di viveri per i ribelli, ma rifornendo la popolazione tramite la Croce Rossa. Nonostante ciò, d’Annunzio denunciò il blocco come un’infamia, accusando Nitti “di affamare i bambini e le donne” e invitando tutti gli alleati in Italia a raccogliere fondi per l’Impresa. Il 16 settembre inviò una polemica lettera a Mussolini, direttore de Il Popolo d’Italia e fondatore dei Fasci di Combattimento, contestandogli lo scarso sostegno finanziario:
«Mio caro Mussolini, mi stupisco di voi e del popolo italiano. Io ho rischiato tutto, ho fatto tutto, ho avuto tutto. […] Io ho tutti soldati qui, tutti soldati in uniforme, di tutte le armi. È un’impresa di regolari. E non ci aiutate neppure con sottoscrizioni e collette. […] Non c’è proprio nulla da sperare? E le vostre promesse? Bucate almeno la pancia che vi opprime, e sgonfiatela. Altrimenti verrò io quando avrò consolidato qui il mio potere. Ma non vi guarderò in faccia.» |
(D’Annunzio a Mussolini) |
Questa lettera apparve su Il Popolo d’Italia il 20 settembre emendata dalle parti più polemiche (quelle che appaiono in corsivo). Mussolini avviò rapidamente una sottoscrizione pubblica per finanziare Fiume che raccolse quasi tre milioni di lire. Una prima tranche di denaro, ammontante a 857 842 lire, fu consegnata a D’Annunzio il 7 ottobre. Parte del denaro, con un’autorizzazione pubblica del poeta, fu utilizzata per finanziare lo squadrismo milanese. Quando alcuni redattori de Il Popolo d’Italia accusarono Mussolini di avere sottratto a d’Annunzio una parte dei fondi, il poeta prese le difese del capo fascista con una lettera pubblica, nella quale affermò che legionari e fascisti stavano combattendo la stessa lotta: “dichiaro anche una volta che – avendo spedito a Milano una compagnia di miei legionari bene scelti per rinforzo alla vostra e nostra lotta civica – io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti”. Il 26 ottobre si tennero a Fiume le elezioni che videro proporsi, per la prima volta, i fautori dell’annessione all’Italia guidati da Riccardo Gigante. La lista annessionistica vinse circa il 77% dei consensi e Gigante divenne sindaco della città il 26 novembre.
La spedizione a Zara
Mentre ancora duravano gli incontri con Badoglio, D’Annunzio il 14 novembre prese l’iniziativa di recarsi a Zara. Infatti il 14 novembre si imbarcò sulla nave Nullo insieme a Guido Keller, Ernesto Cabruna, Giovanni Giuriati, Giovanni Host-Venturi e Luigi Rizzo. A Zara venne benevolmente accolto dall’ammiraglio Enrico Millo, divenuto governatore di quei territori occupati, che davanti al Vate prese solennemente l’impegno di non abbandonare la Dalmazia finché questa non fosse stata ufficialmente annessa all’Italia. Dopo le Elezioni politiche italiane del 1919 tenutesi il 16 novembre Francesco Saverio Nitti fu riconfermato al governo (Governo Nitti II).
Al fine di risolvere pacificamente la crisi, a metà ottobre Nitti incaricò il generale Badoglio di intavolare delle trattative diretta con d’Annunzio e i suoi rappresentanti, al fine di trovare una soluzione di compromesso. Il 23 novembre governo italiano consegnò a d’Annunzio una proposta (definita Modus vivendi). Con questo documento, il governo italiano si impegnava a impedire che la città potesse essere annessa alla Jugoslavia. D’Annunzio rifiutò l’offerta reclamando l’annessione immediata, ma nella notte il testo fu affisso sui muri della città da Riccardo Zanella, che intendeva rendere partecipi i cittadini fiumani. Il manifesto di accompagnamento dichiarava:
«L’annessione formale, oggi è assolutamente impossibile. Però il governo d’Italia assume solenne l’impegno e vi dà formale garanzia che l’annessione possa avvenire in un periodo prossimo… Cittadini! Se voi rifiutate queste proposte, voi comprometterete in modo fors’anche irreparabile la città, i vostri ideali, i vostri più vitali interessi. Decidete! Decidete voi, che siete figli e i padroni di voi e di Fiume, e non permettete, non tollerate che altri abusino del vostro nome, del vostro diritto, e degli interessi supremi d’Italia e di Fiume.» |
(Parte del testo del volantino affisso nottetempo sui muri di Fiume per conto del governo italiano) |
Il 15 dicembre il Consiglio nazionale della città di Fiume approvò le proposte del governo italiano con 48 voti favorevoli e 6 contrari. Gli elementi più accesi della popolazione e dei legionari contestarono le decisioni prese dal Consiglio arrivando anche a intimidire gli elementi più moderati con la benevola tolleranza del Vate, al punto che la rivista nazionalista La Vedetta d’Italia fu chiusa per qualche giorno, pertanto si preferì indire un plebiscito per decidere il da farsi. Il testo del quesito fu il seguente:
«È da accogliersi la proposta del governo italiano dichiarata accettabile dal Consiglio nazionale nella seduta del 15 dicembre 1919, sciogliendo Gabriele d’Annunzio e i suoi legionari dal giuramento di tenere Fiume fino a che l’annessione non sia decretata e attuata?.» |
(Testo del plebiscito votato dai cittadini fiumani il 18 dicembre 1919) |
Lo scrutinio iniziò la sera stessa mostrando un andamento nettamente favorevole all’accoglimento delle proposte italiane, ma allo stesso tempo i legionari bloccarono lo scrutinio sequestrando le urne. D’Annunzio colse l’occasione di annullare quelle elezioni dall’esito sfavorevole.
«Mi sono state riferite e provate le irregolarità commesse da una parte e dall’altra durante la votazione plebiscitaria: le giudico di tale natura da togliere alla votazione ogni efficacia di decisione…» |
(Con queste parole D’Annunzio decise di invalidare il plebiscito) |
La decisione di d’Annunzio sembrò inaccettabile anche a suoi importanti collaboratori. Giovanni Giuriati si dimise dalla carica di capo di Gabinetto. Scrisse a D’Annunzio:
«Io sono venuto a Fiume per difendere le secolari libertà di questa terra, non per violentarle o reprimerle» |
(Testo della lettera con la quale Giovanni Giuriati rassegnò le proprie dimissioni da capo gabinetto) |
Gli subentrò Alceste De Ambris, ex sindacalista rivoluzionario e interventista, giunto a Fiume nel gennaio del 1920. Badoglio interruppe ogni trattativa e lasciò l’incarico di commissario della Venezia Giulia. Al suo posto subentrò il generale Enrico Caviglia.
Il gabinetto De Ambris
In quei giorni, anche a causa di un cambio di rotta in senso rivoluzionario e popolare impresso dallo stesso De Ambris, si iniziarono a temere in Italia ipotesi di svolte in senso repubblicano e addirittura il timore di un tentativo di colpo di stato.
Filippo Turati (deputato del Partito Socialista Italiano) in quei giorni scrisse:
«Il povero Nitti è furibondo per le indegne cose di Fiume […]. Non solo proclamano la repubblica di Fiume, ma preparano lo sbarco in Ancona, due raid aviatori armati sopra l’Italia e altre delizie del genere. Fiume è diventato un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high-life. Nitti mi parlò di una marchesa Incisa, che vi sta vestita da ardita con tanto di pugnale. Purtroppo non può dire alla Camera tutte queste cose, per l’onore d’Italia.» |
Nella stessa Fiume gli ufficiali del Regio esercito vivevano con disagio la nuova situazione, tanto che lo stesso generale Caviglia pensò di sfruttare il dissidio interno tra monarchici e repubblicani. Inoltre alcune decisioni dello stesso D’Annunzio alimentavano dubbi e polemiche. Nel marzo 1920 un furto compiuto da alcuni legionari ai danni di alcuni commercianti scatenò le ire del capitano dei Carabinieri Rocco Vadalà, che richiese al Vate lo scioglimento dal giuramento per poter abbandonare la città. Dopo alcune resistenze iniziali i Reali Carabinieri abbandonarono la città seguiti da alcuni ufficiali di altre armi. Al contempo il problema degli approvvigionamenti diventò sempre più pressante tanto che circa quattromila bambini dovettero sfollare da Fiume con il supporto dei Fasci Italiani di Combattimento e delle organizzazioni femminili. Il 22 aprile gli autonomisti di Riccardo Zanella, ostili ai legionari dannunziani, con l’appoggio dei socialisti, proclamarono lo sciopero generale.
Il 12 maggio cadde il governo presieduto da Francesco Saverio Nitti. Fallito il tentativo di restare a capo del governo, formando un nuovo gabinetto, Nitti perse definitivamente la carica nel giro di un mese e al suo posto subentrò un nuovo governo presieduto da Giovanni Giolitti, che si insediò il 16 giugno.
Fiume, la Reggenza Italiana del Carnaro
Proclamazione della Reggenza italiana del Carnaro.
La situazione di stallo in cui si trovava la città di Fiume da ormai diversi mesi, e forse la rinuncia ufficiale del Regno d’Ungheria a ogni diritto sull’antico possedimento, spinsero D’Annunzio a una nuova azione, la proclamazione di uno stato indipendente, la Reggenza Italiana del Carnaro, proclamata ufficialmente il 12 agosto 1920.
«La vostra vittoria è in voi. Nessuno può salvarvi, nessuno vi salverà: non il Governo d’Italia che è insipiente ed è impotente come tutti gli antecessori; non la nazione italiana che, dopo la vendemmia della guerra, si lascia pigiare dai piedi sporchi dei disertori e dei traditori come un mucchio di vinacce da far l’acquerello… Domando alla Città di vita un atto di vita. Fondiamo in Fiume d’Italia, nella Marca Orientale d’Italia, lo Stato Libero del Carnaro.» |
(Dal discorso di D’Annunzio del 12 agosto 1920 in cui proclamò la Reggenza Italiana del Carnaro) |
L’8 settembre, pochi giorni dopo la proclamazione dell’indipendenza fu promulgata la Carta del Carnaro. La politica dannunziana a Fiume, anche per via di tentennamenti, non fu univoca. L’obiettivo di partenza era il ricongiungimento di Fiume all’Italia, ma vista l’impossibilità di raggiungere tale obiettivo, tentò di costituire uno stato indipendente, la Reggenza italiana del Carnaro, uno stato fondato sui valori del sindacalismo rivoluzionario. D’altronde in quel periodo l’affermarsi del regime bolscevico in Unione Sovietica era avvertito dalla piccola borghesia e dai reduci in modo controverso: da una parte era forte la paura dei sovversivi; dall’altra era avvertibile un sentimento di interesse per qualcosa di nuovo che stava nascendo. Il nuovo Stato vide l’ingresso nel governo di personalità come Giovanni Host-Venturi, Maffeo Pantaleoni e Icilio Bacci. Il presidente del Consiglio Nazionale Antonio Grossich espresse le proprie perplessità riguardo alla proclamazione dell’indipendenza.
La pianificazione di un colpo di Stato in Italia
Nell’autunno del 1920 Fiume divenne il centro di un piano insurrezionale, che aveva lo scopo di rovesciare il governo Giolitti e imporre un nuovo regime in Italia. Secondo le intenzioni dei golpisti, una spedizione doveva partire dal Carnaro e marciare su Roma (o passando per Trieste o con uno sbarco ad Ancona) e assumere il potere. L’eversione era motivata da timori che riguardavano sia la politica interna, sia quella estera. Nel mese di settembre, infatti, era in corso l’occupazione delle fabbriche e la destra temeva che i socialisti potessero trasformare la protesta in un tentativo rivoluzionario, anche perché il governo si mostrava troppo morbido nei confronti degli operai, non reprimendo l’occupazione con la dovuta energia. Inoltre, D’Annunzio e i suoi seguaci erano preoccupati per le trattative tra Italia e Jugoslavia in merito al confine orientale, temendo che il governo potesse lasciare Fiume e la Dalmazia agli slavi. Al complotto presero parte vari elementi dello schieramento dannunziano. Anzitutto, i legionari che già occupavano Fiume e i nazionalisti, che furono tra i più attivi nell’invitare il poeta a “osare”, tanto che elementi come Alfredo Rocco, Francesco Coppola e lo stesso Enrico Corradini si recarono più volte da d’Annunzio per discutere il progetto. L’atteggiamento dei fascisti era più cauto: Mussolini non intendeva rischiare il suo futuro politico su un progetto incerto. Il piano giunse a un livello avanzato di elaborazione e nel mese di settembre e ottobre i potenziali eversori tenevano riunioni quasi quotidiane a Roma, presso la redazione dell'”idea nazionale”. I golpisti erano sostenuti da una cordata di industriali, tra i quali Oscar Sinigaglia, che intendevano finanziare l’impresa, ma altri settori del mondo industriale preferirono tenersi in disparte. I golpisti speravano di trascinare dalla loro parte alcuni ufficiali del Regio Esercito, in particolare l’ammiraglio Enrico Millo, governatore della Dalmazia, e il generale Enrico Caviglia. Senza l’appoggio dei militari, infatti, il piano era destinato al fallimento. Si aspettavano, inoltre, che i corpi di pubblica sicurezza, in particolare i Reali Carabinieri, non avrebbero preso le armi contro di loro. Le voci sull’organizzazione del colpo di Stato divennero di pubblico dominio alla fine di settembre e tutti i giornali italiani se ne interessarono. Giolitti, con un’abile manovra, riuscì a stroncare sul nascere i propositi dannunziani: da un lato, fece avvicinare da suoi emissari gli elementi più malleabili del fronte golpista, a partire da Mussolini, che fecero venire meno il sostegno; dall’altro, si assicurò la fedeltà degli alti gradi dell’esercito. I golpisti, pertanto, vistisi privati del sostegno dei militari, furono costretti a recedere dai loro propositi. Il piano insurrezionale non fu messo in atto, ma tra i potenziali eversori restò l’idea di prendere il potere con la forza, che sarebbe stata realizzata nel 1922 con la Marcia su Roma.
Il trattato di Rapallo
Poche settimane dopo, il 12 novembre 1920, Italia e Jugoslavia firmarono il Trattato di Rapallo, in cui si impegnarono a rispettare l’indipendenza dello Stato libero di Fiume. Tutti i partiti politici italiani accolsero favorevolmente l’accordo stipulato. Anche Mussolini e De Ambris considerarono positivo il nuovo Trattato. Mussolini lo difese inoltre sul Popolo d’Italia, cercando di convincere la propria base. Pochi giorni dopo il generale Caviglia comunicò a d’Annunzio i dettagli del trattato di Rapallo. De Ambris avvertì lo scrittore che la popolazione e gli alleati in Italia erano disposti ad accettarlo.
«…lo stato d’animo dei fiumani è in complesso per l’accettazione del Trattato di Rapallo. In Italia domina lo stesso sentimento anche negli amici più fedeli, i quali non lo dicono apertamente solo per non avere l’aria di abbandonarci.» |
(Alceste De Ambris a d’Annunzio prima che quest’ultimo respingesse il Trattato di Rapallo) |
D’Annunzio rifiutò il trattato fin dal primo momento. Ai tentativi di mediazione rispose con le armi, mandando i legionari a occupare le isole di Arbe e Veglia, che il trattato destinava alla Jugoslavia. Quando il Trattato di Rapallo fu ufficialmente approvato dal parlamento, il generale Caviglia mobilitò le truppe intorno alla città ed inviò un ultimatum a d’Annunzio: i ribelli dovevano ritirarsi dalla isole e accettare il trattato. Il poeta rifiutò ogni trattativa, anche quando Caviglia concesse altre 48 ore di tempo per consegnarsi alle autorità e evacuare i civili. Le truppe legionarie si arroccarono intorno alla città, creando una rete di trincee e barricate. Nel pomeriggio della vigilia di Natale, le truppe regolari sferrarono l’attacco.
La sconfitta dei ribelli
Gli scontri iniziati il 24 dicembre furono battezzati da d’Annunzio come il Natale di sangue. Dopo la tregua di Natale, la battaglia ricominciò il 26 dicembre. Di fronte alla resistenza dei legionari, che si opponevano con mitragliatrici e granate, la Marina ebbe l’ordine di bombardare le posizioni ribelli. Le batterie della Andrea Doria bombardarono anche il palazzo del Governo, sede del comando di d’Annunzio. Il bombardamento proseguì fino al 29 dicembre e provocò morti e feriti anche tra la popolazione civile. Il 28 dicembre d’Annunzio riunì il Consiglio della Reggenza e decise di intavolare le trattative con gli esponenti dell’esercito regolare. Rassegnò le proprie dimissioni con una lettera consegnata a Giovanni Host-Venturi e al sindaco Riccardo Gigante:
«Io rassegno nelle mani del Podestà e del Popolo di Fiume i poteri che mi furono conferiti il 12 settembre 1919 e quelli che il 9 settembre 1920 furono conferiti a me e al Collegio dei Rettori adunati in Governo Provvisorio. Io lascio il Popolo di Fiume arbitro unico della propria sorte, nella sua piena coscienza e nella sua piena volontà… Attendo che il popolo di Fiume mi chieda di uscire dalla città, dove non venni se non per la sua salute. Ne uscirò per la sua salute. E gli lascerò in custodia i miei morti, il mio dolore, la mia vittoria.» |
(Dalla lettera scritta da D’Annunzio in cui rassegnava le dimissioni al generale Ferrario) |
Il 31 dicembre 1920, d’Annunzio firmò la resa che portò alla costituzione dello “Stato libero di Fiume“. Della delegazione di ufficiali incaricati di trattare la resa del “Vate” faceva parte anche Pietro Micheletti, reduce della prima guerra mondiale. Nel gennaio 1921 i legionari cominciarono a lasciare la città su vagoni ferroviari predisposti dall’esercito. D’Annunzio partì il 18 gennaio, trasferendosi a Venezia. I dirigenti dei Fasci Italiani di Combattimento elaborarono una mozione di condanna per l’attacco a Fiume da parte dell’esercito regio, firmata all’unanimità con l’unica astensione di Benito Mussolini. In Italia, la legislatura a causa delle reazioni nel Paese si chiuse anticipatamente e le elezioni politiche si tennero nel maggio 1921, dopo le quali Giovanni Giolitti non fu più capo del governo.
Lo Stato libero di Fiume e l’annessione all’Italia
Nell’anno 1921 si tennero le prime elezioni parlamentari anche a Fiume nelle quali parteciparono gli autonomisti e i Blocchi Nazionali pro-italiani. Il Movimento Autonomista ricevette 6558 voti e i Blocchi Nazionali (Partito Nazionale Fascista, Partito Liberale e Partito Democratico) 3443 voti. Presidente divenne il capo del Movimento Autonomista, Riccardo Zanella. Il 3 marzo 1922 un gruppo di ex-legionari e fascisti, guidati da Francesco Giunta, rovesciarono con la violenza il governo Zanella. L’Assemblea costituente dello Stato libero fu costretta a riunirsi in esilio a Porto Re (Kraljevica) nel Regno di Jugoslavia. Lo Stato libero rimarrà sotto controllo di militari italiani fino a quando Fiume verrà annessa a tutti gli effetti allo Stato italiano dal governo Mussolini nel 1924. Come nelle altre regioni annesse vi fu introdotta una politica di italianizzazione.
Fonti Wikipedia